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‘Figlia mia’ di Laura Bispuri: l’enigma della genitorialità per raccontare un diverso paradigma possibile della femminilità

Solo attraverso un percorso di irriducibile singolarità, solo attraverso una nuova possibilità di essere se stessa, non per forza madre, non per forza “incapace” di essere madre e non per forza figlia, si può tentare di aprire un orizzionte inedito in cui articolare la femminilità del futuro

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Figlia mia è attualmente disponibile su RaiPlay.

Sardegna. Durante un rodeo una ragazzina dai capelli rossi sta cercando qualcosa e vede una donna rossa, come lei, in piedi, seminuda che si intrattiene con un uomo grasso e laido. Si volta e si allontana palesemente turbata. Corre da un’altra donna. Le due donne si conoscono,  una vive allo sbando tra galline, cavalli e merda da spalare. Un’ingiunzione di sfratto le è arrivata e deve pagare 29 mila euro che non ha. Ogni sera si mantiene in un locale bevendo e offrendo “servizi” agli uomini di passaggio. L’altra, “ la madre”, Tina,  che lavora in una grande pescheria, si prende cura della ragazzina, Vittoria, che conduce una vita raminga nelle campagne sarde tra rocce, animali e una strana fauna umana.

La bambina di 10 anni è affascinata dalla figura di quella donna rossa, Angelica, così fragile e istintiva, così respingente e scombinata. Si reca spesso a trovarla, attratta da una donna così enigmatica e misteriosa che canta e balla “questo amore non si tocca… fatti mangiare e bere dalla mia bocca”. Durante una gita a Supramonte, Angelica concede attenzioni condite di racconti crudeli alla bambina curiosa, mentre le descrive cosa si fa ai cavalli azzoppati e cosa vogliono gli uomini. E un giorno l’incontro tra Angelica e Tina, che ha scoperto la frequentazione della figlia con questa donna, svela le paure e gli arcani accordi intrapresi tra le due donne.

Il tema

Il rapporto madre/figlia è il tema centrale del film: essere madre, non essere madre, essere figlia. La Sardegna è una sorta di utero, una cavità rocciosa, impervia, meravigliosamente ruvida ed estrema come sa essere solo la fecondità materna: un mitologico ancestrale viaggio nelle fessure uterine, divoranti e nutrienti. Un mondo, quello femminile che cannibalizza se stesso, inconscio della propria capacità autodistruttiva e riproduttiva; fatto di fecondità sterile e misteriosa, come in Angelica, e di sterilità feconda funzionaria della specie come in Tina. Laura Bispuri articola l’enigma della genitorialità come nucleo della narrazione, per descrivere l’interiorizzazione che può accompagnare o meno la funzione biologica del genitore che non necessariamente coincide quindi con la maternità e la paternità biologiche, estrinsecandosi nella capacità di prendersi cura.

Ma qui, forse nessuno si prende cura di nessuno se non di se stesso; Tina che non può resistere alla sua compulsione di essere madre, nonostante o forse soprattutto perché la natura glielo ha negato; Angelica che non può che essere ciò che è, ossia incapace di essere madre, perché ha avuto una “madre stronza come tutte le madri”, come dice lei stessa, o perché madri non si è istintivamente come una fagocitante cultura ignara ha sempre divulgato, facendo sentire inadeguato chi non si fosse rigidamente adeguato. Vittoria che nel dubbio non si fa bastare una madre perché può averne un’altra ed entrambe.

Una frattura tra “madre” e “figlia”

Il meraviglioso, assordante, accecante mondo della donna asservito alla maternità fattasi industria culturale procreante non può che eternizzare una femminilità possibile: farsi amare per quello che non ha e desiderare per quello che non è. Ma in questa storia l’uomo non c’è e quindi la liberazione da questo claustrofobico vincolo sembra possibile e il finale apre orizzonti di ossigenazione dal vincolo della relazione eterosessuale per la ricostruzione di un mondo femminile altro. Occorre reinventare, bene o male, ciò che è una madre e ciò che è una figlia, attraverso una frattura, un processo di separazione dalla madre per cui la figlia acquista una sostanza per se stessa.

Solo attraverso un percorso di irriducibile singolarità, solo attraverso una nuova possibilità di essere se stessa, non per forza madre, non per forza “incapace” di essere madre e non per forza figlia, la bambina può diventare una donna che sia tutto questo insieme: madre, non madre, figlia; ossia deve saper fare “della solitudine la sua partner”, della propria singolarità qualcosa di irriducibile a quella mortificante glorificazione della femminilità che implica l’umiliazione di chiunque la possieda.

Figlia mia di Laura Bispuri è un film manifesto di una condizione e di una rivendicazione di uno spazio proprio, di un diritto manipolato da secoli. Un film che soffoca con uno sguardo che fissa l’orrore e gli tiene testa e, nella coscienza irriducibile della negatività, rivendica una nuova ossigenazione perché annuncia la possibilità del meglio.

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