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FESTIVAL DI CINEMA

Quinta giornata di Sguardi Altrove Film Festival: dai drammi sociali e familiari al sorriso benevolo di Francesca Archibugi

Quinta giornata di Sguardi Altrove Film Festival: due film che suscitano dolore e rabbia: Princess contro la tratta di Chiara Sambuchi e Between Worlds di Miya Hatav. Dalla Nigeria a Gerusalemme, film di dolore e rabbia

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Due film che suscitano dolore e rabbia, in questa quinta giornata del Festival: Princess contro la tratta di Chiara Sambuchi (Sezione Diritti Umani, Oggi), e Between Worlds di Miya Hatav (Concorso Nuovi Sguardi). Un documentario il primo, film di finzione il secondo.

Chiara Sambuchi torna a Sguardi Altrove dopo la presentazione, lo scorso anno, del suo lavoro dal titolo Lost children, denuncia necessaria di un fenomeno sconvolgente: la tratta dei bambini, soprattutto dal Medio Oriente, e dall’Africa, molti dei quali svaniti nel nulla. Quest’anno la regista ci propone un’altra inchiesta su un fenomeno altrettanto necessario, altrettanto sconvolgente. Si tratta del mercato di donne nigeriane, illuse con la promessa di un lavoro, e costrette alla prostituzione. Anche loro sono tantissime. Impossibile soccorrerle ad una ad una, ma Princess Inyang Okokon, fondatrice insieme al marito dell’associazione Piam Onlus, dice che smetterà di aiutarle solo quando le avrà salvate tutte. E’ infaticabile nel suo andare da una casa all’altra dove le ragazze sono nascoste, le accudisce, le protegge, le cura come una madre amorevole perché si affidino, trova loro un lavoro fino ad inserirle nel sociale e farle rivivere . Non è facile averne la fiducia, troppo forte la paura dei protettori (che parola fuori luogo!;, ma Princess ce la fa, con la sua pazienza e la capacità di rassicurarle. Anche Chiara Sambuchi è riuscita ad entrare con delicatezza nel loro mondo, se ha potuto convincerle a essere riprese. Dolore e rabbia, alla fine, si fanno da parte, nel vedere giovani donne che trovano libertà, la dignità e il sorriso.

Amarissimo il film di Miyra Hatav, nel mettere in luce i guasti dell’ortodossia religiosa, di una rigidità che calpesta ogni forma di amore, che non si allenta neppure davanti alla disperazione più grande, quella di un figlio che forse morirà. A Gerusalemme il giovane Oliel è vittima di un atto terroristico che lo riduce in coma. Al suo capezzale i genitori, la madre Bina e il padre Meir. Arriva trafelata anche la ragazza di Oliel, Amal, che, essendo araba, si finge figlia di un degente anche lui in coma, per poter stare vicino al fidanzato, se pure nella stanza attigua. Nei pochi giorni della narrazione, le due donne lentamente si avvicinano, mentre il padre pensa solo ad applicare i dettami del rabbino, come cercare spasmodicamente i filatteri del figlio (allontanatosi da loro e dalla loro ortodossia), o dare sacralità a riti che in quel contesto appaiono davvero ridicoli e fuori luogo. Gli unici veri rimedi potrebbero essere la vicinanza e il contatto di Amal, rifiutati dal pregiudizio e dalla chiusura ostinata. Eppure Bina ci fa sperare, a tratti, che possa rinunciare all’attaccamento religioso e privilegiare la ragionevolezza. Bravissima questa attrice (Maya Gasner), che tanto somiglia alla nostra Alba Rohrwacher, ma più severa, il cui personaggio oscilla tra la sicurezza della preghiera e il cedimento dei sentimenti.

Dopo un dramma sociale ed uno familiare, la serata viene conclusa da una commedia che ha come tema  una tragedia relazionale, ma con il sorriso che sempre ci regala Francesca Archibugi (a cui è dedicato l’Omaggio di questa edizione del Festival).
Gli sdraiati è un film per gli adolescenti, ma soprattutto per padri e madri, per coloro che vivono sulla loro pelle inadeguatezza, fragilità, difficoltà nel separarsi. Che abbondano nelle proiezioni genitoriali, con una sollecitudine al limite dell’invadenza, che vorrebbero uscirne ma si trovano imbrigliati in un meccanismo di coazione a ripetere sempre più rigido.
E’ ciò che sta sperimentando Giorgio (Claudio Bisio), volto televisivo di successo, riconosciuto da tutti per strada, ma snobbato dal figlio quasi diciottenne, Tito. Tito reclama, inascoltato, quella giusta distanza che tutti gli psicologi raccomandano e si rifugia nel nido della sua nuova famiglia sociale: cinque altri sdraiati come lui, e come lui adolescenti a tempo pieno.
Francesca Archibugi e Francesco Piccolo (un’altra sceneggiatura di questa coppia) hanno dovuto inventare una storia là dove una storia proprio non c’era, partendo dal libro omonimo di Michele Serra, che si presenta come un flusso di coscienza, una riflessione (amara) tra sé e sé sul rapporto con il figlio, sulle poche somiglianze e le tante differenze. Così hanno aggiunto un’identità al padre e una ex-moglie molto più sicura nel ruolo di madre; al figlio, un nonno affettuoso, una fidanzata, e gli amici.
Oltre ad un intreccio minimo. Più qualche evento generatore di conflitto, anche se i dissapori sono nascosti in ogni gesto quotidiano: il tubetto del dentifricio lasciato aperto, lo yogurt sul tavolo consumato a metà, la luce che rimane accesa. Insomma: l’inconcludenza tutta delle giornate di Tito, secondo Giorgio, le intollerabili interferenze paterne secondo Tito.
Come dieci anni fa in Lezioni di volo, l’Archibugi torna a parlarci di quanto sia difficile crescere, ma questa volta il punto di vista e le ambivalenze sono anche e soprattutto quelli degli adulti. Lo fa con la sua mano al solito lieve, con grazia, senza nulla togliere all’essenza dei problemi. Se si sorride durante la visione, infatti, non si esce riconciliati con le difficoltà quotidiane (e profonde) del confronto generazionale.

Un uomo al centro del racconto, reso in tutta la sua instabilità da uno sguardo femminile che sappiamo essere sempre lieve e benevolo, nonostante tutto.

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