I fratelli Kyle e Peter Reynolds, diversissimi l’uno dall’altro nonostante siano gemelli, scoprono che il padre non è morto come pensavano e che la madre ha avuto in gioventù una vita sentimentale piuttosto movimentata. Desiderosi di conoscere il genitore che credevano perduto, i due intraprendono un viaggio che farà loro scoprire molti punti oscuri sui genitori, sulla famiglia e se stessi.
Tanto il personaggio di Peter è compassato e serioso, quanto il fratello Kyle è invece esuberante e sopra le righe; così evidenti sono le differenze fra i due che difficilmente possono credersi fratelli. Il primo è un medico di mezz’età in crisi coniugale, il secondo uno scioperato che vive di rendita, molto attratto dal gentil sesso. La frequentazione forzata durante il viaggio per scovare il padre fino ad allora ritenuto defunto consentirà ai due fratelli di smussare le differenze che li separano: Peter imparerà a lasciarsi ad andare e a smettere, almeno in parte, il suo contegno; Kyle cercherà di assumere un atteggiamento più maturo e consapevole.
Uno scontro di caratteri, dunque, ampiamente sfruttato dalla commedia americana, creatrice di coppie cinematografiche destinate nei decenni a grande fortuna: si pensi a quella formata, a partire dagli anni sessanta, da Jack Lemmon e Walter Matthau, loquace e isterico il primo, taciturno e misantropo il secondo. Oppure, declinando la commedia in chiave poliziesca, a James Belushi e Arnold Schwarzenegger) in Darko (1988) di Walter Hill. Nulla di nuovo offre Due gran figli di… di Lawrence Sher, che si limita a reiterare una formula collaudata e ad aggiornarla ai tempi con scurrilità varie che lo inchiodano a un livello d’intrattenimento molto basso per non dire infimo. L’alchimia fra protagonisti non scatta mai, né la presenza di Glenn Close nel ruolo della madre giova ad alzare un po’ il tono. L’umorismo è a base di doppi sensi da terza media, condito dalle smorfie, per nulla divertenti, in cui si producono gli attori (Owen Wilson in particolare: viene da chiedersi come abbia potuto essere scritturato da Woody Allen per Midnight in Paris).
Ad affossare definitivamente Due gran figli di… è la durata spropositata, resa ancor più indigesta dal ritmo lento e televisivo che caratterizza la regia, ignara dei tempi cinematografici, specie di quelli di una commedia che si vorrebbe scoppiettante e divertente. Nonostante le volgarità assortite sciorinate lungo quasi due ore, il finale è il più convenzionale e consolatorio che si possa immaginare, teso all’ennesima celebrazione della famiglia che sembra accomunare tutto il cinema d’oltreoceano, da quello più sciatto a trasandato (cui appartiene il film in questione) a quello dalle maggiori ambizioni autoriali. I dissapori e le divergenze fra i due fratelli e fra questi e la madre vengono facilmente ricomposti in un lieto fine (un vero e proprio hollywood ending) ipocrita e insincero, col quale il film vuol evidentemente accattivarsi il pubblico delle famiglie e farsi perdonare del turpiloquio e delle volgarità disseminate ovunque, attraverso un ritorno all’ordine che celebri i valori tradizionali, in primis quello che vede l’unità e l’armonia all’interno del nucleo familiare quale valore fondamentale della società. La carica potenzialmente eversiva e dissacrante che avrebbe potuto avere sulla carta la storia di questi due fratelli e della loro disastrata famiglia (anche se l’insieme è talmente superficiale e sciatto da minare in partenza anche questa possibilità) finisce dunque col perdere tutto il suo potenziale e divenire un elogio dei legami fraterni e filiali, in virtù dei quali tutte le differenze vengono riassorbite.