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Con Quello che non so di lei Roman Polanski realizza un ‘thriller da camera’ disseminato di nonsense, freddure, giochi di ruolo e scambi d’identità

Ribadendo a chiare lettere che “costruire una prospettiva è sempre una forma di finzione”, l’artista stuzzica il pubblico e lo rinchiude in un thriller psicologico da cui è difficile distaccarsi. Un vero e proprio dadaismo avanguardistico pieno di nonsense, freddure, giochi di ruolo e scambi d’identità

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Roman Polanski non ha bisogno di presentazioni. È il regista del brivido, delle situazioni sospese, dei giudizi contrastanti. È quell’artista capace di coccolare lo spettatore attraverso la fedele trasposizione di importanti opere letterarie e, contemporaneamente, di sconvolgerlo con la propria, istrionica, impronta autoriale. Era già successo con Rosemary’s Baby e L’inquilino del terzo piano, quando i critici di tutto il mondo si erano ritrovati a scontrarsi con teorie e supposizioni di ogni tipo, senza mai ricevere una risposta alle proprie domande. Ma Polanski, si sa, è un maestro nella disseminazione della simbologia metaforica e letterale, capace di creare spaesamento e labirintite in chi si accinge a decifrare i suoi messaggi in codice. O almeno a provarci.

Quello che non so di lei non fa eccezione. Adattamento del romanzo D’apres une histoire vraie di Delphine de Vigan, la pellicola scorre linearmente, senza virtuosismi di sorta, sebbene intenda indagare i meandri oscuri di un’intelligenza perversa, in una sorta di Confessioni di una mente pericolosa. E il regista è pericoloso davvero, specialmente quando decide di schierare in fase di sceneggiatura il collega Olivier Assayas (autore di Personal Shopper), asso nella manica per una composizione così confusa ed enigmatica come quella di un thriller da camera. Proprio la claustrofobia, l’aria viziata, gli spazi chiusi e gli angoli angusti dettano le regole del gioco cui le due protagoniste partecipano. Un divario tra Amore e Thanatos che sfiora una classicità austera e una leggenda effimera e bucolica. Un vero e proprio dadaismo avanguardistico pieno di nonsense, freddure, giochi di ruolo e scambi d’identità.

Una Emmanuelle Seigner in stato di grazia che fa di Eva Green la propria Musa ispiratrice ma anche il proprio demone interiore da estirpare. Oltre ogni immaginazione e al di là di qualsiasi confine prestabilito, la razionalità rimane costantemente fuori dalla scena, incapace di manomettere le sequenze diegetiche. Seguendo dunque lo stream of consciousness della protagonista, Polanski conduce lo spettatore in un viaggio sinusoidale all’insegna della libertà creativa. Ribadendo a chiare lettere che “costruire una prospettiva è sempre una forma di finzione”, l’artista stuzzica il pubblico e lo rinchiude in un thriller psicologico da cui è difficile distaccarsi. O meglio, da cui non ci si può distaccare perché, sin dalle prime inquadrature, ti fa sentire parte di quell’universo, per quanto strambo, ottuso e deviato si presenti.

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