In un’edizione del Trieste Film Festival che ha visto i documentari decisamente sugli scudi, il lavoro realizzato in Ecuador da Stefano Cravero e Pietro Jona, Country for Old Men, è tra quelli che ci hanno colpito di più. Per le esperienze di vita così singolari che analizza, per lo spaccato sociale rappresentato, per l’umanità dei personaggi e per la stessa cura formale. Come abbiamo già avuto modo di affermare nel recensirlo, anche la giuria del Premio Salani ha potuto constatare che esso, «con sensibilità e precisione, racconta le tante contraddizioni e sfaccettature degli Stati Uniti di Trump, attraverso una storia di inedita migrazione». Questa la motivazione data dai giurati alla Menzione Speciale. Per quanto però il documentario abbia l’ulteriore pregio di ricorrere a una narrazione limpida, lineare, sono tante le curiosità nate in noi durante la visione. Per saperne di più abbiamo quindi voluto interpellare gli autori. La piacevole telefonata avuta con Stefano Cravero ha fatto emergere subito una serie di risvolti alquanto interessanti. E il resto lo abbiamo messo a fuoco continuando a scriverci con lui e con Pietro, entrambi in grado di descrivere la loro esperienza con una vivacità e una passione che ci hanno permesso di empatizzare ulteriormente con il loro progetto…
Conversando una prima volta con Stefano, ho appreso che prima di firmare insieme la regia di Country for Old Men avevate ricoperto ruoli differenti, in ambito cinematografico. Potreste accennare brevemente al vostro background?
Pietro lavora normalmente come operatore su documentari o su prodotti televisivi. Stefano lavora come montatore di film e documentari. Ci siamo conosciuti qualche anno fa in occasione di un documentario (Slow food story di Stefano Sardo) in cui appunto ognuno di noi copriva il proprio ruolo “naturale”. Non abbiamo pianificato più di tanto il fatto di fare i registi, ma quando abbiamo iniziato a pensare all’idea di Country for old men ci è sembrato naturale provare a farlo noi, unendo le forze e firmandolo insieme.

Il pubblico di Trieste è rimasto senz’altro sorpreso, durante la visione del vostro film, nello scoprire la curiosa ondata migratoria che sta portato in Ecuador diversi cittadini americani anziani, perlopiù a causa della crisi economica. Come siete venuti al corrente di questo fenomeno?
Un’amica (italiana) che viveva in quel periodo a Cotacachi per motivi professionali ci ha raccontato che il paese era pieno di pensionati americani e ci ha invitati ad andare a vedere di persona. Abbiamo pensato che potesse essere un’idea interessante e facendo qualche ricerca perlopiù su internet ci siamo resi conto di trovarci di fronte ad un fenomeno decisamente importante e corposo, e ci ha colpiti molto il fatto che tutto ciò potesse essere letto come la conseguenza di una crisi dei valori classici non soltanto americani, ma occidentali e dunque anche “nostri”.

Come sono iniziate le riprese del documentario? E cosa vi ha portato a circoscrivere in pratica il vostro raggio d’azione alla località di Cotacachi?
Il primo viaggio lo ha fatto Pietro da solo, con una telecamera e un microfono. L’intenzione era quella di documentarsi e di capire se ci fosse davvero materiale per un film. Al suo ritorno aveva girato già cose molto interessanti e stretto contatti e rapporti piuttosto profondi. Basti pensare che nel film finito che abbiamo presentato a Trieste ci sono diverse sequenze importanti che provengono in realtà da quel primo materiale di studio. Successivamente abbiamo incontrato la Graffiti doc e poi RaiCinema, e grazie a loro siamo riusciti ad accedere ai fondi necessari per fare un vero film. Abbiamo fatto due ulteriori viaggi per un totale di circa due mesi.
L’idea di circoscrivere l’azione a Cotacachi è nata subito, nonostante ci siano altre città ecuadioriane coinvolte nel fenomeno della migrazione dei pensionati gringos. Ci piaceva molto il fatto che nello spazio ridotto di una sola piccola cittadina tutto potesse essere visivamente amplificato: le relazioni umane, quelle geografiche e territoriali, i paesaggi ricorrenti e sempre uguali, il rapporto tra la comunità ospite e quella ospitante.

Nel vostro lavoro, che appare formalmente molto curato, si notano apporti di una certa rilevanza, a livello produttivo. Il progetto è nato con tali sostegni o sono stati trovati strada facendo?
L’idea iniziale era quella di girare tutto da soli, sostenendoci con quel poco che potevamo permetterci e con molto sacrificio. Ma quando in modo piuttosto casuale siamo incappati nell’interesse di Enrica Capra e della sua società di produzione, tutto è andato molto velocemente: prima RaiCinema, poi il sostegno importantissimo del Mibact, e naturalmente la Film Commission Piemonte con il suo fondo per i documentari. Mentre il lavoro procedeva, il budget veniva in qualche modo assicurato. Va sottolineato però – e lo diciamo con un certo orgoglio – che tutte le riprese sono state fatte soltanto da noi due con una telecamera, un cavalletto e due microfoni.
Un altro aspetto che ci è parso degno di nota, per l’ottima riuscita del documentario, è quel senso di familiarità e la naturalezza stessa con cui i personaggi che raccontate vi hanno fatto entrare nelle loro vite. Ci è voluto molto per ottenere questa fiducia o sono parsi da subito disponibili a presentarsi a voi in questi termini?
Ci sembra che la condizione particolare di “esiliati” abbia generalmente stimolato molto i nostri personaggi al racconto, al desiderio di condivisione della propria storia personale. Ottenere la fiducia delle persone che abbiamo raccontato nel film è stato per questo motivo più facile di quanto avessimo preventivato, al punto che con alcuni dei protagonisti siamo rimasti in contatto avendo sviluppato con loro un legame affettivo genuino e sincero.

Nell’illustrare le vite di questi “americani in esilio” avete dato molto spazio al loro rapporto con i medici, con le cure ospedaliere. Conseguenza dell’età o c’è dell’altro?
Sicuramente nella scelta di allontanarsi dagli Stati Uniti per andare in un Paese in cui il sistema sanitario sia più favorevole ha contato moltissimo il rendersi conto che, invecchiando, il problema salute sarebbe diventato sempre più difficilmente gestibile. Per noi italiani è un fatto scontato avere un’assistenza sanitaria di livello totalmente o quasi totalmente gratuita, ma non dimentichiamo che negli Stati Uniti interventi piuttosto di routine possono arrivare a costare cinquantamila dollari e che le assicurazioni private non sempre coprono tutte le spese.
In “controcampo” appaiono ovviamente gli ecuadoriani e il particolare rapporto instauratosi con questi nuovi “ospiti” del loro paese, interessante anche dal punto di vista di quei benefici economici, riscontrabili da ambo le parti. Come vi siete proposti di far emergere questo aspetto della vicenda?
Pur essendo stati tentati ad un certo punto delle riprese dall’idea di raccontare più approfonditamente alcune vite di personaggi locali, abbiamo optato per mantenere uno sguardo più distante, in qualche modo più legato al mondo dei gringos: gli ecuadoriani ci sono, ma sono sempre visti o raccontati in relazione ai nostri personaggi principali. Metterli sullo stesso piano ci avrebbe fatto incappare nel rischio spiacevole di essere fraintesi, di apparire come se volessimo dare un giudizio morale sui pensionati americani mostrando il contraltare delle loro vite benestanti. Non era ciò che volevamo. Ciononostante il ruolo nel racconto dei locals è fondamentale, perché la loro presenza seppur marginale rimane forte e crediamo utile per comprendere le dinamiche economiche e sociali che sono in ballo, ma anche forse la personalità stessa di alcuni dei nostri protagonisti.

L’armonica costruzione del documentario è frutto anche del montaggio finale cui siete approdati, ovviamente. Quanto tempo vi ha preso, ma soprattutto come ci siete arrivati, considerando che uno di voi è anche montatore?
Il montaggio del film è durato a lungo, ed è stato caratterizzato da due fasi distinte. In un primo momento ritenevamo naturale che Stefano, che fa il montatore, si occupasse del montaggio e quindi che di fatto lavorassimo da soli fino alla fine del film. Tuttavia ad un certo punto del lavoro, quando già avevamo ottenuto un montato che ci sembrava funzionare, ci siamo resi conto che mancava ancora qualcosa. E quel qualcosa era proprio il classico sguardo esterno di un montatore, di qualcuno che non fosse stato coinvolto nel progetto fin dalla sua ideazione. E così è entrato in squadra Luca Mandrile, che ha dato al film la forma attuale e definitiva aiutandoci a capire davvero quali fossero i punti di forza e quelli di debolezza nel tanto materiale che avevamo accumulato e con cui ci eravamo confrontati da soli forse per troppo tempo.

Per finire, cosa pensate dell’accoglienza ricevuta a Trieste da Country for Old Men e quali prospettive si aprono adesso per il vostro film?
L’esperienza di Trieste è stata bellissima e liberatoria. Dopo tre anni di lavoro, finalmente il nostro film ha fatto ciò per cui qualsiasi film viene realizzato: ha incontrato un pubblico vero, non fatto di amici, conoscenti o addetti ai lavori, ma di persone “normali”. E – cosa ancora più bella – ci è sembrato che sia stato apprezzato e compreso. Tanti dei nostri dubbi relativi al modo in cui avevamo raccontato le cose sono stati definitivamente fugati perché abbiamo capito che le persone recepivano ciò che avevamo intenzione di dire, e questa è probabilmente una delle sensazioni più belle del fare il regista.
Country for old men ha un distributore italiano importante che è Lab80, ed un venditore internazionale. Questo significa che pur in un paese come il nostro in cui i documentari non hanno vita facile, riusciremo ad avere una distribuzione e a mostrare il film a chi sarà interessato a vederlo. Non abbiamo ancora delle date precise, ma speriamo di poter annunciare al più presto l’uscita ufficiale.