Il potere: la sua conquista, la sua gestione, il suo monopolio. Un climax di amministrazione imperiale assetata e logorroica che, come una droga, nutre chi detiene l’autorità e inibisce chi assiste alla sua ascesa. Paul Thomas Anderson è sempre stato interessato a mostrare la bulimia famelica di coloro che possiedono il comando e che divengono despoti spietati e fuori controllo. Il fascino masochistico de Il Petroliere lo aveva infatti presentato al grande pubblico come un artista dickensiano schietto e spregiudicato, capace di nascondere l’occhio dietro la macchina da presa ma di far percepire il proprio tocco in ogni inquadratura. Affascinato, dunque, dal carisma irruento di Daniel Day- Lewis, lo elegge protagonista indiscusso anche de Il filo nascosto, un’opera drammaticamente vorace che prende ispirazione dal romanzo Rebecca – La prima moglie di Daphne Du Maurier per omaggiare l’omonima trasposizione cinematografica di Alfred Hitchcock.
Reynolds Woodstock dirige l’atelier più in voga del suo tempo. Re della moda londinese, crea abiti ad hoc per le sue clienti borghesi, migliorandone l’aspetto ed enfatizzandone le forme. Non si è mai sposato perché la sua anima è assorbita dal lavoro, e sua sorella Cyril (Lesley Manville) provvede a gestire la casa. La sua ordinaria vita cittadina, però, viene completamente sconvolta da Alma (Vicky Krieps), una ragazza goffa, impacciata e poco elegante, che l’uomo trova attraente proprio per le sue imperfezioni. La costante voglia di migliorarla, modificarla e plasmarla come uno dei suoi modelli scatena in lui l’impellente desiderio di possederla: come musa, come amante, come moglie.
Il loro rapporto è basato proprio sul difficile equilibrio di detenzione del potere: austero e demiurgico, il suo, frivolo e leggiadro quello di lei. È proprio nel loro sadico gioco di dare e avere, di rinunce e pretese, di obblighi e di necessità, che l’amore prende forma, si insinua lentamente nelle loro vite e gli si cuce addosso come le benedizioni che lo stesso Woodstock inserisce nelle fodere degli abiti. Incapaci di rinunciare al dolore che si autoinfliggono, gli amanti convivono e combattono contro i fantasmi del passato, contro le allucinazioni della mente, contro una casa organica che li divora giorno dopo giorno facendo in modo che gli eventi prendano la piega che loro stessi decidono di dargli. Dal momento che “una cosa che non cambia, è una cosa morta”, dunque, nella dolcissima favola gotica ed edgarpolleiana – passatemi il termine! – che Paul Thomas Anderson firma, non c’è posto per la logica e per il raziocinio perché i sentimenti sono imprevedibili e non possono mai, in alcun modo, rispettare un modello prestabilito, neanche se nato dalla mente di un artista brillante.