Gran parte di Eric Clapton: Life in 12 Bars mostra fotografie d’epoca, commentate dalla voce fuori campo di Clapton, che lo ritraggono in compagnia di colleghi illustri come George Harrison, Jimi Hendrix e B. B. King, e brani filmati di concerti accanto a quelli amatoriali girati nell’abitazione del musicista, visto insieme ai familiari nell’intimità domestica. Dalla nascita nell’Inghilterra postbellica alla precoce scoperta della vocazione musicale, dagli esordi fino al conseguimento del successo di pubblico e della stima nell’ambiente musicale, la vita e la carriera di quello che è oggi considerato uno dei massimi virtuosi della chitarra viene ripercorsa fedelmente, senza tacere nemmeno i momenti di crisi e depressione, aggravati dalla dipendenza dal bere. Tuttavia, proprio questa fedeltà e aderenza alla biografia artistica e personale del protagonista priva l’opera di un precisa prospettiva attraverso cui osservare gli eventi, che la regia si limita a presentare allo spettatore senza filtrarli criticamente. Si scoprono così aspetti dell’esistenza di Clapton che non tutti conoscevano, ma senza che ne venga proposta una lettura capace di analizzarli nel profondo, penetrando il mistero della creazione artistica, da un lato, e di affrontare temi complessi quali la depressione che per un certo periodo afflisse il protagonista, aggravata dall’abuso di alcol, dall’altro. Il documentario non evita il patetico e lo spettatore si trova abbastanza platealmente invitato a compatire il difficile momento vissuto dal musicista. La morale è stantia: il successo reca sempre con sé il pericolo dell’autodistruzione e la vita di un artista, specie se affermato, è più da compiangere che da invidiare.
Il periodo che copre l’iniziale affermazione del chitarrista e il definitivo conseguimento della fama, l’intera prima metà della sua ormai cinquantennale carriera, da Layla and other assorted love songs coi Derek and the Dominos (1970) ad Unplugged (1992), disco vincitore del Grammy che segna l’assunzione dell’autore nell’olimpo dei massimi chitarristi di sempre, viene coperto in una singola sequenza, in cui scorrono velocemente le copertine dei dischi, con inquadrature che si susseguono in una sfilata di episodi, volta appunto a condensare eventi distribuiti lungo un esteso lasso temporale nel minor tempo possibile, segnando uno scarto fra la durata diegetica e quella della rappresentazione.
Ed è esattamente questo il risultato ottenuto dalla regista, Lili Fini Zanuck, con una tale scelta espressiva: lasciare lo spettatore ignaro di metà della produzione discografica di Clapton, dai primi successi alla consacrazione. Chi già conosce quel periodo non ha modo così di approfondirlo; chi invece non ha dimestichezza con la carriera del musicista continua a non sapere alcunché della sua attività ascrivibile a un periodo di oltre vent’anni. La voce fuoricampo dello stesso Clapton collabora, in tal senso, con la regia quando afferma che l’intera sua produzione musicale per due decenni è stata soltanto opera di un tossicodipendente alcolizzato, negandone così ogni valore. Limitando la presenza del protagonista alla sola voice over, inoltre, e rinunciando quindi a farlo comparire in scena, Eric Clapton: Life in 12 Bars finisce col somigliare a una sorta di audiolibro, commentato con malcelato distacco da Clapton. Difficile dunque per lo spettatore provare non empatia ma almeno interesse per un personaggio che non viene mai mostrato, sul quale l’obiettivo della macchina da presa non si posa nel corso delle due ore abbondanti di durata. Qualche filmato d’epoca non basta a proporre uno sguardo autenticamente critico sulla carriera del protagonista, né a coinvolgere e ad avvicinare alla sua opera chi già non ne sia stato un estimatore e un cultore.
L’impressione è quella di una regia che si defili e si limiti ad accostare brani di repertorio senza sviluppare un discorso coerente che offra uno sguardo inedito sulla materia trattata. Stando a quanto si vede, si è portati a domandarsi che cosa vi sia di così interessante nella vita di Clapton, né si prova un particolare desiderio di avvicinarsi alla sua musica, almeno quella composta nei primi vent’anni di carriera, confinata in pochi secondi di proiezione dalla regia e dalla voce dello stesso Clapton, e presentata come frutto di un artista distruttivo e alcolizzato.