Parigi contemporanea. Stazioni della metro. Ragazzi anonimi, sguardi fissi, inespressivi, inquieti, cupi, muti. Si aggregano e disgregano come cellule impazzite, mentre gettano i cellulari con i quali hanno fotografato alcuni spazi comuni. Si parla di HSBC e della riduzione drastica del personale; di Nixon, di Pinochet e di Rivoluzione Francese, mentre suona la grande sinfonia funebre e trionfale di Berlioz. Uno studente ha un appuntamento con un ministro che manda i saluti al padre; una ragazza si dedica alla doratura della statua di Giovanna D’arco, un altro apre un’auto davanti alla Borsa di Parigi e ivi si accomoda per qualche minuto; altri si dividono i piani del grattacielo de La Defense. Un banchiere è stato freddato da Greg, ma anche Fred, uno di loro è stato ucciso da un collega. Il semtex fa saltare tutte queste postazioni, mentre loro convergono, in serata, verso un grande magazzino di lusso.
Qui tutto è pianificato, eliminata la sicurezza, disinnescate le videocamere e programmata la permanenza fino alla mattina successiva quando si farà ritorno a casa. Le tv dello store di lusso mostrano le prime immagini degli attentati ancora non rivendicati da nessuno. I ragazzi si aggirano storditi, in stato confusionale tra sentimenti di angoscia, tentativi di sottrarsi alla loro stessa presenza, attraverso giochi di musica, di cibo, di vita e di morte, in un ambiente nel quale il brand più estremo firma l’ostentazione materiale capitalistica.
Mentre i simboli del potere politico e finanziario sono stati attaccati, il centro commerciale diventa la loro casa per una notte, una dimora tutt’altro che sobria, nella quale si cantano in tono grottesco i versi gotici, funebri e struggenti di My way. Alcuni di loro, sono ancora molto determinati e lucidi; sembrano immuni dai dubbi che “hanno sputato di fronte alle storie di chi si inginocchia”; altri sentono l’odore della morte. Alcuni cercano di giustificare le loro azioni rivendicando l’epicità del proprio operato: d’altronde anche gli asini in Iraq si rifiutavano di percorrere i campi pieni di mine, per questo i bambini erano stati adoperati come alternativa.
I terroristi che hanno compiuto questi atti devono essere considerati ‘nemici pubblici’, recitano gli ultimi comunicati della tv; pertanto la qualificazione identitaria di tali criminali diviene simbolo di una contrapposizione frontale all’ordinamento giuridico-politico costituito. Ciò legittima il diritto a considerarli non più come persona ma come mera fonte di pericolo il nemico assoluto, l’iniustus hostis, che va pertanto neutralizzato in nome della sicurezza collettiva, attraverso misure di eccezione.
Ecco l’eccezionalità del risvolto che prende Nocturama: l’obbligo morale risiede nell’ineluttabilità della reazione. Occorre bollare la parte avversa come criminale e disumana, come un non-valore assoluto; la logica di valore e disvalore dispiega tutta la sua devastante consequenzialità e obbliga a creare sempre nuove e più profonde discriminazioni, criminalizzazioni e svalorizzazioni, fino all’annientamento di ogni vita indegna di esistere. È consentita qualunque reazione, onorata e celebrata come buona e giusta, e soprattutto posta su un piano metavaloriale.
Pertanto la domanda non sarà più il perché – quale può essere stato il movente genealogico di un presunto attacco al potere – ma solo la risposta determinerà l’eliminazione dell’imbarazzo della domanda stessa, così pretestuosa e insopportabilmente faziosa. Ecco perché questi ragazzi così ingenuamente criminali: vittime-carnefici di un sistema fagocitante scelgono come temporanea residenza un centro commerciale nel quale divengono merce senza brand, pertanto puro feticismo di aspetti valoriali dettati da quel profitto che si approfitta di rivendicazioni da usare a proprio vantaggio.
Il film non è stato ammesso al festival di Cannes e non ha ricevuto riconoscimenti neanche dall’economia della distribuzione. Se il ‘mostro’ è in casa e il nemico in patria, allora il meccanismo di rimozione è l’unica salvezza.
Nocturama di Bertrand Bonello svela, con sofisticato mistero artistico, che tutti i valori sono regolati da un mercato mascherato da entità metafisica invisibile che incide pesantemente sulle vite, senza che la più organizzata ribellione possa minimamente scalfirlo. Anzi, l’esito è quello della strumentalizzazione della pseudoribellione: la globalizzazione assorbe in sé, nelle maglie dell’economia, anche la nostalgica lotta tra il servo e il padrone, i quali non hanno più modo di contrastarsi ma solo di allearsi per stare dentro quel mercato che ormai nessuno contesta più, come fosse legge di natura. Essere è troppo complicato, sebbene vi siano sporadici tentativi, e l’azione epica che questi ragazzi immaginano confusamente di aver compiuto evidenzia la loro esposizione, il loro essere posti fuori, ossia il fatto che la loro identità non gli appartenga perché è in un altro posto, in ciò che si vedrà e si dirà o non si dirà di loro. Ciò che sembra possederli è la violenza come urlo scellerato di identità di fronte all’insostenibile anonimato: tale scelta o tentativo di ribellione non si rivela altro che la più accurata espropriazione della propria identità; un’alienazione radicale che ha perso ogni traccia di sé. Una rappresentazione violenta dell’attuale industria culturale, un inquietante affresco della nostra contemporaneità.
“Dove andiamo?” chiede Kerouac in On the road. “Non lo so, ma dobbiamo andare”.