La vedova Winchester s’ispira liberamente alla vera storia dell’ereditiera Sarah Pardee Winchester e alla sua magione, la Winchester House, che subì continui lavori fino alla sua morte. La leggenda tramanda che la grande casa – costruita in maniera bulimica, con scale che non portano da nessuna parte, corridoi improvvisamente terminanti su muri, centinaia di camere, migliaia tra finestre e vetrate decorate con oscure citazioni, un vero labirinto – fosse infestata dai fantasmi di uomini e donne uccisi a causa del commercio di armi del marito, William Wirt Winchester, imprenditore e fondatore della Winchester Repeating Arms Company a cui si deve la produzione del famoso fucile a ripetizione protagonista della storia bellica dell’America del XIX secolo.
I gemelli australiani Michael e Peter Spierig, di origine tedesca, partono da qui per scrivere e dirigere il loro quinto lungometraggio, un horror ambientato alla fine dell’Ottocento, quando la vedova si era rinchiusa nella villa, dopo la morte del marito, accudita dalla nipote. Il punto di vista narrativo è quello del dottor Eric Price, uno psichiatra, ingaggiato dal consiglio di amministrazione della società per inviarlo alla magione e constatare la sanità mentale della donna allo scopo di attestarne l’incapacità di gestire la compagnia del marito. Il dottor Price è anch’egli vedovo (la moglie si è suicidata tempo prima), scettico sulle voci delle presenze fantasmatiche, dedito al consumo eccessivo di assenzio e a una vita dissoluta per alleviare i propri sensi di colpa. Se il suo arrivo alla villa Winchester all’inizio si prospetta come un soggiorno di una settimana per visitare la donna ritenuta pazza, quasi subito anche lui inizia a vedere dei fantasmi e in particolare uno, un soldato sudista morto per vendicarsi della famiglia, causa indiretta della sua morte e dei fratelli durante la guerra di Secessione americana.
La vedova Winchester si trasforma così ben presto in un film dai classici cliché della casa infestata, dove i buoni lottano per dare pace alle anime dannate, o quantomeno controllarne la presenza, grazie ai labirintici interni dell’abitazione che li tengono prigionieri. Gli unici aspetti interessanti della pellicola sono essenzialmente due: da un lato, la condanna della produzione e dell’uso scriteriato delle armi, dove il possesso e l’uso sono parte integrante di una società forgiata sul sangue e sulla violenza: le colpe dei padri e mariti producono solo il Male cui diventa difficile porre rimedio; dall’altro, la ricostruzione di un set claustrofobico, con una scenografia che diventa protagonista, una prigione dell’anima in cui, oltre ai morti, sono rinchiusi anche i vivi, metafora di una comunità senza vie d’uscita che non permette di salvarsi, e i personaggi si muovono come tanti Minotauro in trappola, autoreclusi per espiare una colpa storica.
Purtroppo, però, La vedova Winchester ha una messa in scena banale e scontata, con le apparizioni dei fantasmi senza suspense e una sceneggiatura mancante del giusto ritmo, non riuscendo a trasferire la claustrofobia scenografica – che rimane fine a se stessa – allo spettatore. Gli Spierig avevano stupito con i precedenti Daybreakers (una variante postmoderna di una storia di vampiri) e, soprattutto, con l’ottimo Predestination, originale pellicola sulla circolarità del tempo e la metamorfosi del corpo – il loro film migliore. Al contrario, con La vedova Winchester tradiscono le aspettative, confezionando un prodotto di maniera, già visto, quasi una brutta copia di Crimson Peak, senza però la magia e le capacità di messa in scena di Guillermo del Toro.
E se Helen Mirren interpreta la vedova Winchester in modo mimetico, divertita e poco spaventata (e spaventevole), Jason Clarke, nel ruolo del dottor Price risulta un po’ troppo inverosimile e ingessato. Così come Sarah Snook nella parte della nipote della vedova, è sacrificata in una recitazione del tutto irrilevante, sprecando il talento ammirato in Predestination, dove duettava con Ethan Hawke.
Un passo falso per i fratelli Spierig con La vedova Winchester che, alla fine, più che far paura, strappa qualche sorriso per la sua ingenuità, che non lascia nessun segno e si rivela un’operazione superficiale.