Il primo supereroe africano: Black Panther, re del popolo di Wakanda; una città tecnologicamente e econominamente avanti anni luce al resto del mondo (skyline futuristici, navicelle spaziali e sistemi intelligenti di comunicazione e trasporto), invisibile all’occhio umano grazie a uno speciale sistema protettivo. Lo stato deve la sua fortuna al vibranio, straodinaria lega metallica caduta dal cielo insieme a un meteorite milioni di anni prima. Un metallo più resistente di qualsiasi altro del pianeta e particolarmente duttile all’impiego tecnologico. Il vibranio è l’anima e il cuore del Wakanda. Intrappolato in una montagna, la città lo estrae da centinaia di anni, senza ancora averne intaccato la superficie.
Black Panther unisce perfettamente la cultura africana – o per meglio dire, un’idea della cultura africana – (fatta di riti ancestrali e tribù patriarcali), con il tradizionale spirito hollywoodiano della Marvel. Ryan Coogler porta al cinema un film con un’interessante commistione di elementi, capace di creare, da una parte, una vera e propria epica africana, e, dall’altra, di inventare un’estitica completamente nuova: sia a livello di scenografia e costumi (uno spiccato senso futuristico dei tradizionali costumi africani), sia nella musica, che vede partecipazioni illustri, come Kendrick Lamar, The Weekend e SZA, in grado di applicare e reinventare alle sonorità del continente le moderne canzoni di oggi.
Il nuovo lungometraggio della Marvel ha un sottotesto politico ben preciso. Nessuno prima di T’Challa aveva messo in discussione l’esclusione del Wakanda dai problemi esterni. Aiutare i milioni di africani in difficoltà in tutto il continente? Aprire le porte al resto del mondo per aiutare una popolazione in difficoltà ed esporsi così ai pericoli esterni? La prima volta che un film della “Casa delle Idee” affronta temi così centrali. Ma se all’ambizione di raccontare una storia d’intrattenimento puro, bilanciato con un messaggio politico piuttosto evidente, unisce una colonna sonora e un’atsmofera tribale davvero unica, Black Panther non riesce a mantenere la stessa efficacia anche nella sua realizzazione. Cercando il fascino di una spy story nella prima parte – con tanto di elenco dei vari gadget a disposizione della Pantera Nera, come in uno dei classici film di 007 – e un più classico racconto supereroistico nella seconda, il film non ha lo spessore (e probabilmente neanche il tempo) necessario per esplorare entrambi i generi. In altre parole, il lungometraggio inserisce così tanti elementi nella storia che anche l’ironia, notoriamente ben inserita nella narrazione – tanto da diventare anche le fondamenta di tanti film -, perde qui gran parte della sua efficacia, con battute e gag talmente deboli da rovinare intere scene d’azione.
Black Panther è un progetto talmente imbrigliato nei canoni Marvel da essere probabilmente il suo problema più grande. Importante per essere il primo film su un supereroe africano (e con tutta l’eco che questo progetto significa per la cultura afro americana), il messaggio politico non riesce ad abilitare del tutto l’intera produzione. Esteticamente è una gioia per gli occhi, ma per la gran parte del film l’aspetto esteriore è l’unico elemento che sorprende. Eccenzion fatta per due attori, entrambi i villain di questa storia: Erik Killmonger, interpretato da Michael B. Jordan, e Andy Serkis, che veste i panni di Ulysses Klaue (già visto in Avengers: Age of Ultron). Gli unici veramente in grado di aggiungere qualcosa ai loro personaggi, di andare oltre l’aspetto estetico e le pose supereroistiche, e di portare l’intero film a un livello più alto, tanto che la storia diventa veramente interessante quando sono loro i protagonisti della scena.