Il senso di un progetto come quello di Ore 15:17 – Attacco al treno rientra in due ordini di pensiero.
Il primo appartiene da sempre alla tradizione della cultura americana e si riferisce all’idea di assegnare alla violenza un valore tutto sommato positivo, derivandolo dalla sua – presunta – funzione rigeneratrice. Non è dunque un caso sentire un’affermazione come quella che Clint Eastwood inserisce verso la fine del film, quando – dopo aver rischiato di rimanere uccisi per fermare il terrorista presente sul treno che li sta portando a Parigi – fa dire a uno dei protagonisti della vicenda di come la vita, per essere considerata tale non debba temere di affrontare il rischio della morte.
Del secondo, invece, è piena la cinematografia più recente del cineasta americano, nella quale la riscoperta dell’amor di patria diventa la celebrazione di un eroismo che nasce dal basso e appartiene alle persone qualunque. Il coraggio e lo spirito di sacrificio di Anthony Sadler, Alek Skarlatos e Spencer Stone, i tre ragazzi che nell’agosto del 2015 furono capaci di sventare l’attentato a bordo del treno su cui viaggiavano, non sono diversi da quelli messi in mostra da Chris Kyle e da Chesley “Sully” Sullenberger nei film incaricati di raccontarne le gesta. In particolare, Ore 15:17 – Attacco al treno, un po’ per la vicinanza anagrafica dei personaggi, un po’ per una comune matrice caratteriale (cui non è estranea la propensione militare delle parti in causa), sembra voler riprendere American Sniper da dove era finito, ovvero dalla messa in scena di un altro pezzo di storia americana in cui i valori fondanti della Nazione (Dio, patria e famiglia) diventano la misura con cui fare i conti se si vuol essere cittadini statunitensi a pieno titolo.
Va da sé, dunque, che una premessa del genere, alla stregua di quanto capitato altre volte, necessiti di un surplus di convinzione che talvolta finisce per suonare retorica, lasciando aperto il dubbio – come capita anche qui – sulla volontà del “vecchio” Clint, di approfittare dell’occasione per propagandare i valori della politica repubblicana. Lungi dall’infilarci in un discorso che allontanerebbe dal centro del film, ciò che interessa è soffermarci sulla materia cinematografica, sottolineando, innanzitutto, lo scarto di registro messo a punto da Eastwood per il suo nuovo lavoro. A fronte delle prospettive storiche e anagrafiche con le quali il cineasta californiano aveva fin qui raccontato le proprie storie, Ore 15:17 – Attacco al treno preferisce (forse per la particolarità del dispositivo che rinuncia agli attori per far recitare nella parte di se stessi i reali protagonisti dell’accaduto) un contatto con la realtà che è frutto di un’approccio diretto e senza filtri, impostato in modo da far proprio il punto di vista dei suoi interlocutori. Esplicativa, in questo senso, è la seconda sequenza, quella in cui vediamo i ragazzi a bordo dell’automobile, mentre uno di loro presenta gli altri guardando verso la macchina da presa. Detto che l’inserto, seppur anomalo, nella cinematografia del regista, si mantiene comunque coerente con quello che segue, a risaltare è la mancanza di quella (giusta) distanza che normalmente ha permesso a Eastwood di argomentare con un’introspezione partecipe ma equilibrata, frutto di una dialettica generazionale nella quale lo sguardo del cineasta si inseriva senza violare – come in questo caso – il confine che separa l’autore dai personaggi. Se a questo si aggiunge la presenza di una regia “televisiva”, incapace di rimediare a una sceneggiatura che banalizza gli avvenimenti, riducendoli a una somma di scontati cliché, come quelli messi insieme per illustrare col viaggio in Italia dei tre amici, si capisce dove risiedono le ragioni che fanno di Ore 15:17 – Attacco al treno un’opera priva di pathos e poco coinvolgente.