Final Portrait – L’arte di essere amici è la quinta regia di Stanley Tucci, caratterista con una lunga carriera alle spalle nel cinema, televisione e teatro, più volte candidato ai Golden Globe e agli Emmy, vincendone anche un paio in entrambe le manifestazioni. Tucci (autore anche della sceneggiatura) mette in scena un episodio accaduto negli ultimi anni della vita del famoso scultore e pittore svizzero Alberto Giacometti – interpretato in maniera mimetica e sorniona da Geoffrey Rush, donando al personaggio la giusta scontrosità e umanità dell’artista.
La storia racconta la creazione dell’ultimo dipinto di Giacometti, un ritratto dello scrittore americano James Lord (Harmie Hammer, visto di recente anche nell’ultimo film di Luca Guadagnino Chiamami con il tuo nome) e del loro rapporto di amicizia nella Parigi del 1964. Le vicende sono scandite dalle sedute tra i due che si dilungano per alcune settimane, viste le continue interruzioni e rifacimenti di un’opera che non soddisfaceva mai il grande pittore e metteva a dura prova la pazienza dello scrittore che pensava di sbrigarsela in un pomeriggio.
Tucci ha un tocco molto lieve e riesce a descrivere con sincera passione il rapporto tra Giacometti e Lord, intervallato da lunghe passeggiate parlando della creazione artistica e di altri pittori conosciuti da entrambi (gustoso lo scambio di battute su Picasso, che Giacometti non apprezzava). All’interno di questo duetto umano s’inseriscono la moglie, una giovane prostituta amante del pittore e il fratello di quest’ultimo. Il regista, con pochi elementi, senza fronzoli né vuoti intellettualismi, a sua volta crea un ritratto di artista con tutti i vezzi, idiosincrasie, amori, odi, passioni tumultuose, dove arte e vita sono intrecciate in modo indissolubile. La creazione è una lotta con la tela, i colori, il soggetto da ritrarre, in continui ripensamenti e correzioni, rabbia e insoddisfazione per la ricerca di una perfezione irraggiungibile.
Final Portrait quindi è sia l’ultimo ritratto dipinto da Giacometti, ma anche la sua rappresentazione di una vita arrivata alla fine, all’apice del successo. Il film mette in scena un dualismo tra il passato e la saggezza dell’anziano uomo e il futuro e la giovinezza del giovane soggetto ritratto. Si assiste a una triplice rappresentazione tra arte, scrittura e cinema, dove Tucci, attraverso la sintesi del cinema, racchiude la pittura di Giacometti (tesi) e la scrittura di Lord (antitesi). Tucci rimane sempre sugli attori con la macchina da presa, utilizzando moltissimi primi piani che rendono intima la visione, portando lo spettatore all’interno della casa-studio di Giacometti come un testimone extradiegetico di un evento trasformato in sineddoche dell’intera arte del pittore e scultore svizzero.
Final Portrait, quindi, non si risolve come una classica e stereotipa biografia, ma in un piccolo film aggraziato, elegante, che appaga la vista. Una testimonianza e, allo stesso tempo, un saggio visivo che racconta i meccanismi della creazione artistica, senza strafare, in punta di piedi, con umiltà e ammirazione.