Se a Trieste, per il Premio Corso Salani, la giuria composta da Maria Bonsanti, Francesco Giai Via e Cinzia Masotina ha scelto di premiare L’uomo con la lanterna di Francesca Lixi, che «con uno sguardo elegante e creativo, parte dall’autobiografia per raccontare un capitolo poco conosciuto della storia del XX secolo», altrettanto significativa ci è parsa la Menzione Speciale attribuita a Country for Old Men di Stefano Cravero e Pietro Jona, che «con sensibilità e precisione, racconta le tante contraddizioni e sfaccettature degli Stati Uniti di Trump, attraverso una storia di inedita migrazione».
Ed è su questo secondo documentario che vorremmo soffermarci con maggior attenzione. Purtuttavia, sottolineando come il fenomeno descritto con acume in questo sorprendente lavoro non si militi a essere l’ennesimo controcanto allarmante degli Stati Uniti di Trump, quasi fosse quest’ultimo scombinato individuo attraverso le sue politiche discutibilissime ad aver determinato un quadro del genere, rappresentando bensì il prodotto di anni in cui la prolungata crisi economica e i tanti paradossi della globalizzazione hanno modificato profondamente, anche in America, l’assetto sociale. Con esiti fino a non molto tempo fa difficilmente presagibili.
Con buona pace dei Coen e di Cormac McCarthy, si può quindi ribadire che l’America attualmente non è un paese per vecchi? Stando a quanto qui abbiamo visto sembrerebbe proprio di sì. Lo scenario prescelto è di quelli destinati a lasciare un po’ sbigottiti gli spettatori non informati sui fatti, tra cui ci poniamo candidamente anche noi: trattasi ovvero di Cotacachi, cittadina dell’Ecuador persa fra le montagne dove centinaia di americani hanno iniziato a vivere negli ultimi anni. Si tratta di pensionati statunitensi che, dopo aver lavorato per tutta la vita in una nazione cresciuta nel culto dell’American Dream e che solo ora sta cominciando a rendersi conto della sua intrinseca fragilità, hanno pensato di investire tutti i propri risparmi in una sistemazione senz’altro lontana da dove avevano sempre vissuto, situata però laddove viene garantito un costo della vita sensibilmente più basso. Insomma, molti di loro possono tranquillamente rientrare nella categoria degli economic refugees. Sebbene il documentario sveli poi che a livello di motivazioni, di reale necessità e di status sociale originario il quadro degli “esuli” sia piuttosto frastagliato: si va dall’ex culturista, cantante e produttore televisivo Michael coi suoi ricordi hollywoodiani, ad una delle psicologhe di supporto intervenute dopo la tragica sparatoria di Columbine; passando magari per qualche altro anziano che senza emigrare sarebbe finito a vivere in un ospizio o in condizioni finanche peggiori.
La forza di un documentario come Country for Old Men risiede nel concedere spazio a tutti questi punti di vista. Compreso, volendo, quello in qualche misura complementare espresso “in controcampo” dalla popolazione locale, portata a fronteggiare una “invasione” americana una volta tanto pacifica (già questo potrebbe far gridare al miracolo) ponendovi le basi per un micro-circuito economico funzionale e redditizio. D’altro canto trovano qui conferma alcune immagini apparentemente stereotipate ma non lontane dal vero dell’americano medio, restio in molti casi a imparare la lingua del paese in cui s’è trasferito o a relazionarsi alla cultura del posto sul serio, andando oltre la soglia minima rappresentata dal fare la spesa al più vicino supermercato o dal cercare cure veterinarie per gli amatissimi amici a quattro zampe. Ad ogni modo Stefano Cravero e Pietro Jona si sono dimostrati davvero abili nel fotografare questa realtà carica di contraddizioni. E il loro fitto dialogo con gli americani stabilitisi in Ecuador diventa strada facendo un interessantissimo punto di osservazione, da cui escono fuori, di sponda, le considerazioni lucide e talvolta amare degli “espatriati”, su cosa riservi oggigiorno la boccheggiante società stelle e strisce.