Film d’apertura della Settimana della critica al festival di Cannes del 2016 e vincitore in patria di due César (per la miglior attrice a Virginie Efira e il miglior attore non protagonista a Vincent Lacoste), arriva anche nel nostro paese il secondo lungometraggio di Justine Triet, Tutti gli uomini di Victoria, dopo La bataille de Solférino (2013), ancora inedito in Italia. Al centro dell’opera, scritta dalla regista in collaborazione con Thomas Lévy-Lasne, è il personaggio eponimo: una professionista di mezz’età che non trova gratificazione né sul piano lavorativo, nonostante svolga un’occupazione – quella d’avvocato penalista – che le garantisce una certa agiatezza economica e la connota come appartenente alla media borghesia parigina, né su quello familiare, giacché il rapporto con le figlie ancora bambine è condizionato dai suoi impegni professionali, mentre quello con l’ex marito è foriero soltanto di problemi e incomprensioni; né, infine, su quello più strettamente sessuale, vista la frequenza d’incontri con sconosciuti che la vediamo consumare nel corso del film, con esiti ben lungi dall’essere appaganti, più spesso, anzi, involontariamente ridicoli.
Victoria non sembra, dunque, saper discernere il bene dal male, non in senso assoluto, s’intende, ma in relazione a se stessa: di quali casi occuparsi come avvocato e quali invece rifiutare? Quali persone frequentare, a quali legarsi, magari stabilmente in una relazione più solida e seria delle altre, e quali invece allontanare da sé in quanto portatrici di tensione e d’angoscia? La protagonista pare quasi masochisticamente godere, e comunque non far nulla di concreto per fuoriuscirne, della precaria e instabile condizione sentimentale in cui si trova, che finisce col minacciare anche la sua stessa occupazione e la sua situazione economica. In un simile guazzabuglio, si accorge soltanto alla fine dell’importanza del legame con un ragazzo più giovane, suo ex cliente con precedenti penali.
Il punto di vista adottato dalla regista tende a convergere con quello della protagonista, con la quale lo spettatore è portato a identificarsi, condividendone i tormenti. L’alternanza di commedia e dramma è spesso riuscita ed, in tal senso, evita coerentemente gli eccessi: mancano tanto situazioni apertamente comiche quanto altre più nettamente drammatiche, che finirebbero con lo squilibrare il tono complessivo dell’opera, che è appunto quello della commedia drammatica. Per la ronde di personaggi, protagonisti e comprimari, ognuno con la propria storia e la fisionomia caratteriale, si può accostare Tutti gli uomini di Victoria a un celebre film di Woody Allen che vedeva, a sua volta, un insieme di personaggi ruotare intorno al terzetto di protagoniste femminili: ci riferiamo ad Hannah e le sue sorelle, dove diverse storie e personaggi legati a vario titolo al trio eponimo s’incrociavano e s’intrecciavano l’una nell’altra. Il modello del regista newyorchese, pur presente e certo non estraneo alla memoria e all’intenzione dell’autrice e regista, rimane comunque inarrivabile, sia per l’umorismo arguto e dolceamaro, sia per la capacità di ritrarre personaggi – specie femminili – con particolare attenzione per le sfumature e la profondità di sguardo.
Due parole infine sulla tecnica: Tutti gli uomini di Victoria, come sempre più spesso avviene, anche solo per scopi meramente finanziari (poiché consente di risparmiare sui costi della pellicola), è stato girato in digitale. Qui tale scelta appare più evidente che altrove, perché l’immagine risulta quanto mai geometrica e fredda e i colori accesi e violenti (si pensi al rosso dei paramenti in tribunale e alle luci violacee alla festa di matrimonio) a tal punto da urtare la vista. Persino il grigio degli edifici parigini e il cielo nuvoloso che li sovrasta assumono una tinta innaturale, un livido biancore che toglie molto del fascino e della realtà dell’immagine rappresentata. Se ciò dipenda dalla meditata e consapevole scelta della regista e del direttore della fotografia (la voluta e innaturale freddezza delle tonalità potrebbe rappresentare l’aggressività e la violenza del mondo esterno che penetra nella vita e nell’intimità della protagonista), non lo sappiamo dire. Certo è che la differenza fra le riprese su pellicola e le immagini digitali sembra ancora nettissima e immediatamente percepibile dall’occhio dello spettatore: fra le immagini analogiche, più calde e pastose, più vicine alla nostra esperienza di visione quotidiana e quelle digitali, innaturali, geometriche e fredde, corrono tutta la differenza e la distanza che separano uno sguardo maggiormente prossimo a quello umano da uno che, al contrario, manifesta la propria natura artificiale e meccanica e la capacità di manipolare e adulterare a piacimento la realtà.