Noi siamo l’ambiente in cui cresciamo, gli incontri che facciamo, i luoghi dove abbiamo vissuto. Tonya Harding è stata una delle più importanti pattinatrici della storia americana, ma pochi oggi la ricordano per le sue doti artistiche. Ha avuto una madre terribile, che l’ha cresciuta con l’idea che dall’affetto si ricava poco di buono – perché è solo con il sacrificio e la durezza che si ottengono successi – e con dei pattini, che ha iniziato a mettere a quattro anni, che le hanno regalato i pochi momenti di gioia della sua vita. Ha avuto un marito, Jeff Gilloly, violento e sbagliato per una ragazza che, troppo giovane, ha dovuto tirare fuori una tempra non comune per i suoi anni (e una carriera bruciata dalle sue stesse mani).
I, Tonya è un film biografico che racconta l’ascesa e la caduta della Harding, dal momento in cui si è fatta notare ai campionati nazionali del 1991, eseguendo un triplo axel, a quello in cui ha architettato l’incidente alla rivale Nancy Kerrigan durante i campionati nazionali del 1994, all’alba delle olimpiadi invernali dello stesso anno. Quella che ha fatto Craig Gillespie è una biografia non convenzionale, che prende in esame la vita della sportiva dai 4 ai 44 anni, utilizzando l’espediente del mockumentary, cioè del falso documentario in cui già all’inizio del film si capisce che le interviste fatte a Tonya, Jeff, la madre e gli altri sono “totalmente irrilevanti e contradditorie”. Eppure con questo stratagemma il regista è riuscito a edulcorare una storia drammatica con i toni della commedia nera sullo stile dei fratelli Coen. Gilliespie (Lars e una ragazza tutta sua, Friday night – il vampiro della porta accanto) ha preso il soggetto che girava da tempo a Hollywood, ma di cui nessuno voleva prendersi la responsabilità, e ha scritto la storia insieme allo sceneggiatore Steven Rogers (Kate e Leopold, P. S i love you), non lasciando alcunché al caso e scandagliando youtube con i tanti video presenti sulla vicenda, considerando gli altri personaggi non come puro contorno ma come parti del racconto. C’è una rottura della quarta parete che permette al pubblico di entrare nelle vite di questi personaggi facendolo sentire come parte del racconto e complice dei loro misfatti, così che ascoltando tutti i punti di vista possa autonomamente capire come sono andate le cose. Si viene trascinati direttamente nelle vite borderline di questi soggetti quando Tonya sostiene con convinzione che per ogni cosa la colpa non sia sua o quando, per esempio, guarda dritta nella macchina da presa durante l’intervista, per ribadire che quanto quella che sta subendo sia una seconda violenza mediatica.
La storia è tanto crudele quanto, invece, la modalità in cui è stata raccontata è grottesca e divertente: il regista sceglie anche un modo tutto suo per allentare la tensione di parecchi momenti con musica rock (tra cui Iggy Pop, Supertramp, Fleetwood Mac); è esilarante a tal proposito come inserisce Romeo and Juliet dei Dire Straits durante una litigata della coppia. Gillespie ha saputo dosare bene l’equilibrio tra comicità e farsa, non facendo diventare macchietta i personaggi, su tutti Tonya interpretata da una Margot Robbie da Oscar, che riesce perfettamente a rendere gli stati d’animo della pattinatrice, non spingendo chi guarda il film a condannarla del tutto e riuscendo a far provare empatia e comprensione. La madre LaVona (una straordinaria Allison Janney) ha deciso che le emozioni non esistono, inculca alla figlia che lo sport è solo un modo per fare soldi e per avere successo, mentre invece Jeff (Sebastian Stan) un minuto prima picchia la moglie, oppure impugna un fucile sparandole addosso, e un minuto dopo dice di non poter vivere senza di lei. Il marito e l’autista Shawn sono poco intelligenti , di una stupidità spudorata e subdola, per cui non esitano di fronte ad alcuna nefandezza, perché sono pericolosi così come i delinquenti di certe commedie dei Coen. Con quell’ironia e verità che ha contraddistinto la pellicola dall’inizio alla fine, Craig Gillespie è riuscito a cogliere ogni dicotomia della realtà: alla madre spietata contrappone l’allenatrice gentile, alla forza sgarbata e sguaiata della protagonista il suo bisogno di affetto, di affermazione, di accettazione; alla sportiva rozza e volgare l’antagonista elegante, aggraziata, talentuosa, alla mediocrità di contorno il talento puro.
I, Tonya mostra anche una personale battaglia di accettazione in un mondo in cui chi è istintivo e rozzo non può avere riscatto. Tonya lotta per farsi piacere, ma i vestiti glieli cuce la madre per risparmiare, il suo trucco è sempre troppo marcato, i modi troppo aggressivi, è asmatica e fumatrice incallita e non è di certo il ritratto dello sport. Ha un talento che da solo non basta, perché figlia di quel proletariato americano malvisto che tira a campare, e il pattinaggio diventa una forma di riscatto, un modo per risalire da quella vita che con lei non è mai stata troppo generosa. Non ha una famiglia di origine ed è sola: in fondo I, Tonya mostra davvero quanto possa essere crudele la solitudine, lei che per tutta la vita ha cercato di farsi accettare dalle giurie, dal pubblico, dalla madre (significativa a riguardo la scena della tavola calda e l’incontro nell’appartamento di Tonya).
Un minuto prima sei amato, poi odiato: quando successe l’incidente la televisione e le radio stavano morbosamente addosso alla Harding, andavano in giro per cercare ogni dettaglio sordido su di lei.
Ed ecco che la vicenda diventa una metafora dell’America e di tutte le sue contraddizioni, l’idolatrare e il dimenticare in poco tempo, il bisogno di mostrare la famiglia perfetta e il sorriso, anche se finto, perché il pubblico va rassicurato. Gli idoli sportivi devono essere belli e puliti, dare sicurezza ed essere esempi che i bambini possano emulare, invece Tonya ha dato un bello schiaffo a questa ipocrisia con la sua sigaretta sempre accesa e la tenacia.
Un altro film recente ha mostrato questi elementi e queste difficoltà, Borg McEnroe, a dimostrazione del fatto che la metafora sportiva, in questo caso il tennis, fa capire le dinamiche sociali e personali aiutando a non giudicare i fatti senza conoscere realmente le cose. Questa storia diventa, in un certo senso, il vertice e insieme il vortice dell’esistenza su cui scivolare in attesa che la televisione e i mass media facciano il resto, a dimostrazione del fatto che l’America nutre ancora un certo interesse per le storie contorte, basate sul fascino della colpa e del crimine, alla Bonnie e Clyde.
Il percorso di Tonya Harding è una parabola: si sposa per sfuggire alla madre, ma la sostituisce con un marito violento da cui non riesce a riscattarsi, che si approfitta di lei, portandola giù nel baratro. Allontanata per sempre dall’associazione americana di pattinaggio, finisce a fare la pugile perché nella sua intera esistenza ha conosciuto solo le botte, cercando di salvarsi da sola. Alla violenza ha risposto con violenza, perché noi siamo sempre il prodotto degli ambienti in cui abbiamo vissuto, delle persone che abbiamo conosciuto, dei luoghi che abbiamo frequentato.
Ilaria Piva