Guo è un poliziotto malvisto dai colleghi per i suoi discutibili modi di lavorare, distaccato dalla famiglia e rintanato in uno squallido albergo dove, beffardamente, gli è stata assegnata la cosiddetta ‘stanza presidenziale’. Annegato in un vuoto relazionale assoluto, gli unici contatti umani di Guo sono quelli intessuti con le graziose commesse di un negozio di betel nuts, Wen e Xuan Xuan, che protegge con interesse quasi paterno dalle molestie degli inopportuni clienti. Sulla vita di Guo grava il peso di un passato oscurato dai violenti interrogatori praticati nei confronti dei sospettati, i cui effetti sui famigliari delle vittime lo perseguitano fino a condizionarne il comportamento. Guo, infatti, è un volontario presso l’ospedale dove è stata ricoverata la madre di Wen, dopo l’esaurimento nervoso causato dalla condanna di stupro e omicidio del marito. È una paziente che Guo ha preso particolarmente a cuore, ma non per motivi esclusivamente filantropici, quanto invece per un senso di colpa indelebile.
La macchina da presa di Cheng Wen-tang ritrae, spietata e inflessibile, un uomo grigio, un carattere risultante dalla mescolanza di colori sbiaditi, un appiattimento dei toni bianchi e luminosi propri di un lavoro a servizio del bene corrotto da un sistema abietto, ombroso e nero. Lo spazio in cui Guo si muove, ‘fantasma ambulante’ di una vita ormai svanita, è asettico e asfittico, in un armonioso e strutturato equilibrio tra mondo interiore ed esteriore. Gli unici colori incontrati dall’eroe decadente e disfatto sono quelli del negozio gestito da Xuan Xuan e Wen, due ragazze indurite da una vita poco generosa, i cui toni accesi della vetrina kitsch e dell’abbigliamento impudico sottolineano, con sordido cinismo e ironica amarezza, un appassimento prematuro, invece di esaltarne il sapore fresco della giovinezza. Un attore come Tsai Chen-nan, plumbeo, coriaceo e congelato in un’interpretazione algida e, proprio per questo, straordinariamente comunicativa, veste con affascinante freddezza e agghiacciante disumanità i panni dell’annientato Guo.
Le lacrime, così come recita il titolo, oltre a creare una linea divisoria tra i personaggi del film, ne rimarcano la predisposizione d’animo in un senso più spirituale che materiale, di cui si fanno veicolo espressivo. Se Guo non piange da dieci anni, anche Wen non è più avvezza a vivere le emozioni, ignara di aver trovato nel poliziotto amico l’origine dei suoi mali e la causa di tante lacrime versate. E tra una lacrima rappresa e una sgorgante, Cheng Wen-tang ci restituisce l’affresco di una società malata, claudicante e destinata ad arenarsi nella sconfitta, inibita e maledetta, dove nessuno riesce a risollevarsi e a salvarsi dal perfido e implacabile disegno del fato. Come fossero trascinati verso il baratro da una forza mortifera, i vinti di Tears vagano infelici e annichiliti nella pellicola stemperata e sfocata di Cheng Wen-tang, richiamati simbolicamente dalle ultime immagini viste con gli occhi di Guo.
Francesca Vantaggiato