Il documentario Dancer di Steven Cantor si concentra sul rapporto fra Polunin e la sua famiglia: specie sul divorzio dei genitori quando studiava al Royal Ballet, evento che non poteva non lasciare tracce sul ragazzo. Emerge in particolare l’importanza della figura materna, come spesso accade in questi casi, nell’indirizzare il giovane alla carriera artistica quale via di fuga da un avvenire di povertà che sembrava offrire l’Ucraina dei primi anni novanta, appena uscita dall’Unione sovietica e destinata a travagli non ancora superati. Attraverso filmati amatoriali, emergono l’infanzia e la giovinezza del protagonista, che mostra fin da subito una non comune determinazione e forza di volontà, convinto già allora della strada da intraprendere. L’adolescenza non fu per Polunin meno difficile e, come lui stesso rivela nelle interviste, ne indurì il carattere, rendendolo più maturo e forte. Durante gli studi londinesi, gli eccessi di alcol e droga riportarono in auge per lui il binomio d’ascendenza romantica di genio e sregolatezza: tanto dotato nella sua arte, quanto dissoluto e ribelle nella vita quotidiana. Per ricostruire la sua carriera, minacciata proprio da quegli abusi e da quegli eccessi, decise di trasferirsi in Russia dove, sotto la guida del maestro Igor Zelenskij, lasciò da parte i burrascosi anni londinesi per tornare a concentrarsi sulla danza e migliorare la propria tecnica. Il successo arrise quando, nel 2015, il video di Take me to the church si conquistò milioni di spettatori in rete e aprì a Polunin le porte della fama, grazie al vasto pubblico che ora poteva conoscerlo al di fuori dell’ambito della danza.
L’impressione che si ricava dall’insieme è comunque quella di un’opera incensatrice, che presenta un protagonista il quale, forte solo del suo talento e della sua volontà e combattendo contro una situazione di partenza svantaggiata (dove si ripropone il solito stereotipo degli slavi poveri e costretti ad emigrare in Occidente), raggiunge il successo e decide di sperimentare le proprie doti in diversi campi, dalla danza al cinema, quasi come un’implicita e compiaciuta affermazione di eclettismo e di abilità di spaziare in diversi ambiti artistici. Come non leggere poi, nella collaborazione fra Polunin e Zelenskij, una reminiscenza, più o meno voluta, di quella fra Nižinskij (anche lui ucraino come Polunin) e il suo impresario Sergej Djagilev, fondatore della celebre compagnia dei Balletti russi di cui lo stesso Nižinskij fu tra i componenti? Tanto più se il filmato che ha reso celebre Polunin è una nuova versione di un video incentrato sull’omoerotismo (e, si aggiunga, fortemente russofobo).
Ma Dancer può anche essere letto come un elogio delle possibilità che la rete offre nel portare successo e fama agli sconosciuti o a quegli artisti confinati in un ambito che, oggigiorno, non gode di una vastissima eco e notorietà, come quello della danza. In tal senso, il protagonista può davvero essere rintracciato nel video girato da LaChapelle, che segue le evoluzioni di Polunin sulla melodia di Take me home: vera porta per il successo e la fama, certo maggiore di quella che gli sarebbe toccata, almeno presso il grande pubblico, se si fosse limitato a danzare. Il binomio fra genio e sregolatezza viene dunque anche qui ancora una volta confermato.