Nel proliferare di serie tv distopiche, ambientate in un futuro non molto lontano, tramite le quali possiamo vedere da vicino le storture del nostro presente attraverso la loro esasperazione, Mad Men, period drama ambientato negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, prodotto e distribuito da AMC, concluso nel 2015 dopo sette stagioni di trionfi, continua a essere un punto di riferimento per la serialità.
Scritta dall’ex pubblicitario Matthew Weiner, sceneggiatore anche de I Soprano, Mad Men raccoglie il consenso sia degli spettatori, fruitori sempre più attenti e sofisticati, e anche di chi per mestiere scrive e racconta storie.
Mad Men ha in sé la forza del period, nella nostalgia legata al momento storico che va dalla seconda metà degli anni ’50 alla fine degli anni’70, che negli Stati Uniti rappresentarono un punto di svolta nella cultura, nella politica e nelle rivoluzioni sociali; in particolare è ambientata proprio nel momento storico in cui la pubblicità in America cambiò faccia e invece di vendere semplicemente un prodotto, iniziò a vendere il sogno. Un processo, quello della vendita del sogno, che in Italia prese piede con l’avvento delle televisioni private, negli anni Ottanta, proseguito poi nella prima metà degli anni Novanta, fino a Tangentopoli.
Lo specifico di Mad Men, che va bene oggi, come negli Anni Cinquanta o in un futuro prossimo, è lo scarto tra la realtà che viviamo e il sogno, che vorremmo vivere. Che cosa siamo disposti a fare per quel sogno? non soltanto è il presupposto della storia, base macro-tematica che viene calata in tutti i personaggi, dai principali ai minori, ma è anche l’argomento stesso: il mondo della pubblicità, che rende il tema più potente.
E lo è ancora di più, se pensiamo che la pubblicità è figlia della serialità televisiva, e in tutte e due lo spettatore/consumatore, in un modo o nell’altro, vive una proiezione dei propri desideri.
Il senso di Mad Men viene maneggiato sapientemente e declinato in tutte le storie, anche in quelle verticali che si aprono e si chiudono nell’arco di una puntata. Che cosa è disposto a fare Don Draper (Jon Hamm), protagonista assoluto e incontrastato di tutte e sette le stagioni, per nascondere il segreto che gli manderebbe a monte la realtà/sogno patinata che si è creato dopo un’infanzia e un’adolescenza fatte di miseria e umiliazioni? Che cosa è disposta a fare Peggy Olson (Elizabeth Moss) per inseguire il sogno di diventare una copywriter affermata e riconosciuta, in un mondo di maschi alfa dominanti dove in ambito professionale alla maggior parte delle donne è riservato soltanto il ruolo della segretaria?
Don Draper incarna lo spirito della storia. E in una storia dove il conflitto tra realtà e sogno/finzione sono sia nel tema che nell’argomento che lo porta avanti, anche Don Draper non manca al fascino del doppio: c’è il vero Draper, morto durante un bombardamento in Corea, e c’è quello che si è preso la sua identità, nato Dick Whitman, ragazzo orfano di provincia cresciuto in un bordello, poi soldato e sottoposto del vero Don Draper, di cui sfrutta la morte per rubargli l’identità e rifarsi una vita dove già c’erano una moglie e un passato più dignitosi agli occhi della società bigotta degli Anni Cinquanta.
Durante il pilot lo conosciamo come un uomo tutto d’un pezzo, bello, di successo, brillante, col totale controllo della sua vita. Un self-made man, completamente illusorio (anche a sé stesso), che cerca in tutti i modi di farsi pubblicità – proprio nel pieno spirito della serie.
Durante le prime tre stagioni Don Draper cerca costantemente di esercitare un controllo su tutto, mantenendo ben segreto il suo passato e una volta scoperto da sua moglie Betty (January Jones), il personaggio di Draper inizia a cambiare ed è infatti durante la quarta stagione che si alleggerisce, inizia a diventare più pigro, più indolente, più indulgente verso sé stesso, probabilmente più umano.
Essere uscito allo scoperto sulla sua vera identità, lo spinge a superare anche un dilemma etico riguardante il suo lavoro: dopo aver creato per anni slogan efficaci e vincenti per la Lucky Strike – e non dimentichiamoci che siamo negli anni della sempre più emergente presa di coscienza della nocività delle sigarette, interrompe la relazione con la famosa compagnia di tabacco scrivendo una lettera, manifesto del suo conflitto interiore. “Il prodotto che non migliora mai, provoca malattie e rende le persone infelici. Ma aveva a che fare con i soldi. Un sacco di soldi. In effetti tutta la nostra impresa dipendeva proprio da questo. Sapevamo che non era una cosa buona per noi, ma non siamo stati capaci di fermarci.”
L’arricchimento senza scrupoli, i rapporti di forza e le vessazioni sul lavoro, tra colleghi o da parte di clienti importanti, insieme alle disparità sociali e razziali, la spinta sfrenata ai consumi di massa, l’omofobia, l’imposizione alle donne dei ruoli di moglie e madre; e ancora, le operazioni societarie che portano i dipendenti allo sfinimento sono temi ancora scottanti. Mad Man ci fa vedere il presente, attraverso la distanza del period e ci ricorda costantemente che il passato non è tutto rose e fiori, come siamo portati molto spesso a pensare.
Anche se negli anni Cinquanta non eravamo schiavi di like e rating sui social network, per aggiudicarci appartamenti di lusso o macchine più potenti a prezzi vantaggiosi e una vita sociale da copertina, fu proprio in quel momento storico che le persone iniziarono a sognare e la pubblicità, così come la serialità televisiva, onnipresenti nella vita delle persone, fecero da catalizzatore. La gente, inconsapevolmente, iniziò a immaginare una vita da copertina, e quindi a comprare e a consumare. Il resto è storia (e il futuro è su Black Mirror).
Mad Men è disponibile su piattaforma streaming Netflix.