Chiamami col tuo nome diretto da Luca Guadagnino, scritto da James Ivory e tratto dal romanzo omonimo del 2008 di André Aciman, chiude l’ideale “trilogia del desiderio” del regista italiano iniziata con Io sono l’amore (2009) e proseguita con A bigger splash (2015).
Il film, già premiato ai Gotham Awards, ha ricevuto tre nomination ai Golden Globes ed è uno dei titoli caldi di questa stagione. La vicenda ambientata nell’estate del 1983 tra le province di Bergamo, Brescia e Cremona ha come protagonista Elio Perlman, diciassettenne colto e sensibile con la passione per la musica classica, il quale trascorre le estati in una villa alle porte di Crema insieme alla sua famiglia di ebrei americani che parlano inglese, francese e italiano.
Ogni anno il padre, professore di archeologia, ospita uno studente universitario che sta facendo la tesi con lui. Durante quell’estate arriverà Oliver, un ventiquattrenne americano bello e affascinante di cui Elio si innamorerà e che segnerà per sempre la sua vita. Nella prima parte del film si scandiscono le giornate di Elio e delle sue vacanze: le nuotate nella piscina, i pomeriggi con gli amici, le feste di paese e i bagni nei laghi notturni, quell’esperienza acerba con la francese Marzia (Esther Garrel) e gli sguardi che cominciano a inebriarlo di emozioni per Oliver. Nella seconda parte si assiste al vero racconto di questo amore in cui Timothée Chalamet (Elio) dà realmente prova di bravura insieme anche ad Armie Hammer (Oliver).
È un film di amore e sull’amore, nessuno è contro nessuno, nessuno ostacola i due protagonisti ma sono loro a sapere che la storia non potrà con molta probabilità andare avanti. La consapevolezza di ciò li spinge a mostrarsi a cuore aperto, senza nascondersi e potersi permettere di vivere quel tempo che hanno a disposizione; così si segue naturalmente la storia di due ragazzi che si infatuano facendo bagni in piscina, girando in bibicletta, parlando di arte e di discorsi universali.
É Elio a innamorarsi davvero, mentre l’altro si scopre e si scotta di meno ma comincia comunque a vacillare emotivamente sempre più. Durante la vicenda non esistono urla, scenate, genitori o amici che non accettano l’omosessualità o gente bigotta che guarda male; anche i due protagonisti la vivono per quella che è, si sussurrano nella piazza di Crema che non potrà andare avanti. Si segue passo per passo l’evoluzione pura del sentimento senza bisogno di ricorrere a stereotipi, e in questo suo modo gentile la pellicola ricorda Moonlight (2016).
Con le musiche di Sufjan Stevens che scandiscono i passaggi del film e rappresentano la voce di Elio (in particolare Mistery of love e Visions of Gideon) si seguono gli altri temi affrontati, cioè la formazione del diciassettenne, l’innocenza della perdita, il desiderio che da trattenuto si rilascia e diventa prima abbraccio, poi bacio sfuggente, poi intimità per tornare, infine, a fare i conti con la realtà, mostrando tutta la tenera fragilità di Elio e della sua età.
Il film si concentra, come ha spiegato Guadagnino, non sul dramma o sulla recitazione ma sul comportamento dei personaggi, affinchè le identità di questi possano essere reali e non solo soggetti da trasformare in immagine. Il cineasta rispetto al romanzo decide di cambiare anche il luogo, e dalla riviera ligure del libro passa alla pianura lombarda del film girando tra Crema, Bergamo, Brescia. Questa scelta ha senso dato che quei paesi ricordano più intensamente le estati torride, languide e noiose che solo l’adolescenza fa assaporare.
Il regista, in piena ispirazione viscontiana, ha l’abitudine di ambientare i suoi film in contesti altoborghesi con intellettuali poliglotti che parlano di cultura e politica spesso avulsi dalla realtà.
In Chiamami col tuo nome, per esempio, durante un pranzo i commensali si dispiacciano per la morte di Luis Buñuel ma qui, a differenza della villa milanese di Io sono l’amore e del dammuso di A bigger splash dove questo eccesso di borghesia stonava, la scenografia è parte integrante del racconto. La seicentesca villa di Moscazzano ha valore perchè nella sua ieratica classicità accompagna gli sguardi, le emozioni, i volti dei protagonisti e ogni angolo di casa assume un suo significato e un suo perchè, che sia, la vasca del giardino. Questa poetica degli oggetti rende vivida l’atmosfera e soprattutto gioca sull’importano il pianoforte del salotto, la mansarda impolverata, i libri della biblioteca paternanza delle sensazioni affinchè si riescano a sentire davvero quei prati, quei pavimenti di cotto, quelle porte che si socchiudono, quelle mani che si intrecciano. Oggetti e soggetti sono uniti in un unico piccolo e universale mondo, dove la forma e il contenuto diventano la stessa cosa.
Nel frattempo la storia italiana passa in sottofondo, duranti i pranzi e le cene si parla di Craxi, del compromesso storico, in tv scorrono immagini di Grillo ma tutto rimane confinato sullo sfondo come indicazione temporale. Anche la componente culturale è presente con le battute in dialetto della domestica, il bar con il gruppo degli anziani, l’accoglienza e le scene a tavola tipiche del calore italiano. Guadagnino decide di ambientare la pellicola nell’estate del 1983 a differenza del 1988 del libro. Sceglie quell’anno perchè si possono ancora assaporare gli ultimi straschichi del sessantotto e degli anni settanta prima che gli ottanta segnino realmente l’inizio della decadenza culturale e di novità spiazzanti. Con questa lettura, il 1983 potrebbe fungere da passaggio e trasformazione inevitabile che porterà a qualcosa che non sarà più come prima sia per Elio che per il mondo attorno a lui. Si vede quella estetica perfetta propria del cinema del regista italiano, fatta di precisione dei dettagli, di bellezza della fotografia e dei costume, che si specchia con la fragilità dell’animo umano.
Questa volta Guadagnino nonostante omaggi l’Io ballo da sola (1996) di Bertolucci, da sempre uno dei suoi maestri, è riuscito a fare il film più personale della carriera. Non tutti sono in grado di presentare sullo schermo personaggi capaci di tenerezza e profondità quanto il padre di Elio (Michael Stuhlbarg) cui viene affidato un commovente discorso su come la bellezza dell’amore possa integrare anche l’accettazione del dolore; oppure di convincere attraverso una telefonata e un’ultima inquadratura che il tempo passato diventa una dolceamara nostalgia e un ricordo degli attimi vissuti insieme in quella calda estate.
Chiamami col tuo nome diventa un tuffo nei ricordi della propria vita che tutti possono fare, ed è questo il motivo per cui Guadagagnino non è mai stato così vicino come stavolta al pubblico.
Ilaria Piva