Latest News

Il mezzo è il messaggio: la recensione della quarta stagione di Black Mirror

I singoli racconti di Black Mirror hanno la capacità unica di unire verità (la vita comune) e finzione (la tecnologia) in maniera autentica e più orientata a mostrare in primo piano il realismo rispetto alla parte fantascientifica

Published

on

Il fascino e le aspettative verso una serie come Black Mirror, giunta alla sua quarta stagione, sono tali da aspettarsi che l’asticella della sorpresa si alzi sempre con il passare degli episodi e delle ore. In alcune interviste l’autore delle storie, Charlie Brooker ha dichiarato che le puntate sono frutto della sua nevrosi, da un’inquietudine di fondo che lo riguarda e lo attraversa interiormente. Sia chiaro, Brooker non è un alieno, non vive nello spazio cosmico e nientemeno ha viaggiato nel tempo per raccontarci che nel 2020 la Cina instaurerà un sistema di valutazione del singolo individuo (come lo ha effettivamente illustrato nella prima puntata della terza stagione Caduta Libera).

I singoli racconti di Black Mirror hanno la capacità unica di unire verità (la vita comune) e finzione (la tecnologia) in maniera autentica e più orientata a mostrare in primo piano il realismo rispetto alla parte fantascientifica rappresentata dai dispositivi messi in mostra in ogni storia. La prima obiezione possibile riguarda l’episodio apertura. Com’è possibile che una versione inquietante di Star Trek possa essere definita realistica? Gli ingredienti messi in campo traggono un po’ in inganno: un capitano seduto nella tipica posizione di comando, donne affascinanti in minigonna e, soprattutto, cattivi estremamente ingenui e che parlano fin troppo. Una trama già vista, insomma. Il tema è tuttavia un altro, perché quel mondo altro non è che una versione virtuale dell’USS Callister creato da Robert Daly, l’ideatore del gioco Infinity che sta in quel momento spopolando. Il ragazzo, deriso e soggiogato dal suo collega James che si è preso tutti i meriti del successo, si sfoga tramite il videogioco, diventando uno spietato e autoritario comandante di fronte alle copie digitali dei suoi colleghi da lui incriminati. L’autenticità sta nel fatto che è difficile colpevolizzarlo, visto che nel racconto si vedono i due volti del personaggio, il quale reagisce ai torti subiti con la creazione di un mondo parallelo distorto.

La tecnologia diventa quindi il messaggio che assorbe tutte le frustrazioni e le paure della persona, come del resto accade in Arkangel, l’episodio diretto da Jodie Foster. Marie, dopo che la figlia si perde nel parco giochi, decide di utilizzare uno strumento di ultima generazione per registrare ogni singolo movimento di Sara, che di lì in poi diverrà l’occhio esterno della madre. Può geolocalizzarla; può persino attuare una sorta di filtro a scene o situazioni che generano stress alla piccola. Quale genitore non desidera un mezzo così all’avanguardia per sentirsi sicuri e per proteggere i propri casi? È perfetto, se la figlia rimanesse per sempre in età infantile. Purtroppo per i grandi, i loro fanciulli crescono, vanno oltre quella siepe che Leopardi ha tanto decantato nel suo Infinito. Sperimentano, inciampano, commettono errori, ma qui, anche se lo scopo è onorevole e comprensibile per una madre, qui entra in gioco la privacy del singolo essere umano, che vuole tenere nascosto i suoi segreti (anche quelli più loschi e inquietanti come Mia nella puntata Crocodile) senza che nessuno da fuori ne sia al corrente.

La riservatezza cessa ufficialmente con Hang the DJ, dove è in gioco una sorta di Spotify per incontri come ha affermato lo stesso Brooker. È Coach che comanda lì, e decide in ogni momento le relazioni tra gli umani. Il come, l’approccio, non interessa, perché ciò che ha valore è la durata (una coppia può rimanere insieme da 24 ore fino a 5 anni). È proprio lì, dalle reazioni psicofisiche di ognuno, che si può accertare la cosiddetta anima gemella, con una perfezione che il sistema si attribuisce per il 99,8 %. La sensazione non è certo di armonia, se non nella parte iniziale, perché con il passare del tempo l’impressione è di stare dentro una gabbia, rinchiusi per sempre nella monotonia e nella ripetitività delle proprie azioni, come in una giostra dove solo l’unità e l’affetto reciproco può rompere questo ciclo continuo di perenne solitudine.

Black Museum è l’episodio più rappresentativo di Black Mirror, una sorta di omaggio dell’autore alla sua invenzione, al pari del suo protagonista, Rolo Haynes, un uomo che all’inizio lavorava in un centro di sperimentazione a San Jupitero (l’ospedale che dà il titolo alla quarta puntata della terza stagione), ma che, a seguito di alcuni esperimenti non proprio riusciti durante la sua carriera, è stato cacciato dall’intero complesso. La sua passione per queste tecnologie d’avanguardia non cessa, tanto da fondare lui stesso un museo con al suo interno i cimeli che più lo hanno più impressionato. Oltre a notare alcuni oggetti già visti nei racconti passati, quest’ultimo può essere definita la vera reliquia di Black Mirror, il palco con in mostra le imperfezioni, le follie e i timori individuali. C’è il tema della coscienza, c’è persino il desiderio di osservare la messa in atto della violenza, di sentire il dolore e il piacere attraversare la mente; c’è, aspetto forse più importante che ricollega ogni puntata della serie, l’indebolimento delle relazioni sociali, sostituite dall’emarginazione dell’individuo che vuole soddisfare solo se stesso, in preda al proprio ego. Forse è fin troppo catastrofista Charlie Brooker, ma di certo non lo si può etichettare come un cantastorie, perché la realtà è sempre dietro l’angolo.

Commenta
Exit mobile version