Se pure My Generation di David Batty sia un documentario molto affollato, e denso nella sua leggerezza, emergono in figura tre elementi: la voce narrante di Michael Caine (che ci regala il suo punto di vista), lo spirito libertario che sottende ogni passaggio, ogni immagine, ogni frammento sonoro e la musica.
È impossibile non sussultare alle note di I Can’t Get No Satisfation o di Strawberry Fields Forever. Ma in sala bisogna stare composti, mentre altri ritmi continuano a coinvolgere durante gli ottantacinque minuti della visione: Beatles e Rolling Stones, Donovan, The Who, The Animals ed altri ancora. Per poco compare Elvis Presley, unica concessione americana di un film, che, nel ricostruire gli anni Sessanta e la cultura pop, è tutto londinese.
La musica è stata l’anima della Swinging London, involucro di tutte quelle stravaganze che allora sembravano normali, accompagnatrice di ogni cambiamento. My Generation vuole comunicarne emozioni e bellezza non solo ai nostalgici per uno struggente Noi c’eravamo (che pure non sarebbe poco): vuole raggiungere anche i giovani di adesso, quella generation che ascolta troppa musica in cuffia, in solitudine, per dirle come canzone e condivisione fossero tutt’uno e come sarebbe bello lo diventassero ancora.
Io c’ero, afferma spesso Michael Caine, con gioia e orgoglio. E con gratitudine, umorismo, umiltà. Lui, un’icona riconosciuta da tutti, nel cinema inglese e internazionale. Ci racconta i suoi esordi, le difficoltà, la voglia di recitare ovunque pur di ottenere una parte significativa. La prima importante gli viene affidata da una produzione americana, perché mai un inglese avrebbe affidato il ruolo di protagonista a una persona con origini proletarie come le sue.
La parola cockney viene pronunciata spesso, perché solo ora i proletari cominciano ad avere qualche diritto e i loro figli possono studiare, finalmente. Sono loro, soprattutto, gli artefici di quella rivoluzione culturale senza precedenti, che viene descritta qui, insieme ai racconti che Michael Caine ci offre generosamente, su di lui e sul mito di quegli anni. E le interviste a coloro che raggiunsero di colpo una fama mondiale: Twiggy, tra le modelle, David Bailey, tra i fotografi, la stilista Mary Quant e la sua minigonna, il parrucchiere Vidal Sassoon e la novità assoluta dei suoi tagli geometrici. Protagonisti indiscussi dei favolosi anni Sessanta, in cui nessuno, soprattutto se viveva a Londra, si sentiva semplice comparsa.
Il senso di libertà viene reso partendo da un bianco e nero che via via si colora, dall’audio monofonico che diventa stereo, mentre si passa dall’avvilente conservatorismo di fine anni Cinquanta alla ribellione creativa dei Sessanta. Tantissimo il materiale d’archivio (migliaia di ore quello visionato nei cinque anni di lavorazione) a cui si sovrappone la voce degli intervistati, in modo che non ci siano interruzioni temporali. Siamo sempre lì, in quegli anni, in un flusso che solo Caine può permettersi d’interrompere, e quando compare sulla scena con il suo sorriso è sempre il benvenuto.
Lo è anche per gli sceneggiatori Dick Clement e Ian La Frenais, contenti di avere avuto lui come guida e la sua voce in mente mentre scrivevano o sceglievano i testi. Sua è, tra l’altro, la maggior parte delle interviste, realizzate nelle pause degli impegni cinematografici (nove film negli ultimi cinque anni). Lui ne ha ottantacinque. Ne aveva trenta negli anni Sessanta; era abbastanza consapevole da viverli non come una semplice ubriacatura collettiva, ma per ciò che sono veramente stati.
Il documentario non può tacere il problema delle droghe e i disastri, le perdite, di cui sono state responsabili. La narrazione, infatti, sempre vivace e mai convulsa, si ripiega un po’ su di sé verso la fine. Si esce dal cinema comunque soddisfatti, appagati dalla musica e dalle immagini e anche un po’ intristiti per quel sogno (reale!) che non si è più ripetuto.
My Generation sarà nelle sale dal 22 al 29 gennaio, distribuito da I Wonder Pictures.