Nella periferia americana, il giovane Adam, timido e introverso, e perciò molestato dai compagni di classe, scopre, in seguito a una lite, di possedere poteri di cui non sospettava l’esistenza. La causa di queste sue facoltà affonda le radici nella sua famiglia, in particolare nella figura di suo padre, erroneamente creduto morto dal ragazzo. Per saperne di più sulle proprie origini, Adam va a cercare il padre che non ha mai conosciuto.
Per il suo sesto film il belga Ben Stassen, uno dei più importanti registi nel campo del cinema d’animazione in 3d, sceglie di raccontare un personaggio canonico del folclore americano come il Bigfoot, il misterioso uomo scimmia che abita nelle foreste e nelle regioni fredde degli Stati Uniti e del Canada, tanto popolare oltreoceano quanto ben poco familiare al pubblico europeo. Su tutto domina però la riscoperta e l’elogio dei legami familiari
Con una tale scelta tematica, il regista (che dirige insieme a Jeremy Degruson) parrebbe sfidare la produzione cinematografica d’oltreoceano impadronendosi di un suo mito canonico. Ma la figura fantastica del Bigfoot viene qui utilizzata per riflettere sulle malefatte dell’industria che minaccia l’esistenza di una creatura tanto misteriosa quanto in fondo buona e positivamente rappresentata. È infatti la critica alla scienza a costituire l’altro tema portante del film: la razza cui appartengono Adam e la sua famiglia rischia di essere sfruttata a scopi commerciali da un’impresa cosmetica, ed è proprio per sfuggire a tale aggressione e garantire la propria sopravvivenza che il Bigfoot deve nascondersi nei boschi, al di fuori del consorzio umano.
Accanto all’aspetto avventuroso, capace di conquistare l’attenzione del pubblico infantile, il film propone dunque una riflessione sugli abusi e gli eccessi cui conduce un’idea falsata del progresso e sull’importanza di riscoprire i vincoli familiari: per difendersi dalle mire della HairCO, l’organizzazione che vorrebbe studiare Bigfoot come una cavia da laboratorio, padre e figlio dovranno unire le forze e, così facendo, imparare a conoscersi, scoprendo di avere in comune molto più di quanto inizialmente pensassero. Il giovane protagonista, grazie ai poteri ereditati dal padre di cui non sospettava l’esistenza, finirà a relazionarsi con una parte di sé che fino allora gli era ignota. Conoscere gli altri, in questo caso una figura genitoriale come quella paterna, si rivela anche un modo per scoprire aspetti di sé precedentemente trascurati. Il film riesce dunque a veicolare contenuti tradizionali, in linea con quanto ci si attende da un lungometraggio per l’infanzia, attraverso una storia piuttosto ben raccontata, che evita cadute di ritmo.
Riguardo all’uso del formato 3D va rilevato come il regista, pioniere in questo campo, riesca a integrare il formato stereoscopico nello sviluppo drammatico di Bigfoot Junior, aumentando così il senso d’immersione dello spettatore e facilitandone il coinvolgimento. L’ambizione è quella di trasportarlo dentro lo spazio cinematografico, all’interno degli ambienti dove si muovono i personaggi. La tridimensionalità valorizza così le foreste dove il Bigfoot ha trovato scampo dai suoi inseguitori, tanto che la fitta vegetazione che lo circonda sembra quasi palpabile e conferisce al film un valore aggiunto, che lo rende senz’altro accattivante e divertente per il pubblico cui si rivolge.
Sul piano tecnico quello Bigfoot Junior si rivela un traguardo pienamente raggiunto, data anche la netta inferiorità di budget rispetto alle produzioni americane (siamo nell’ordine di uno a cinque). Sul piano tematico il film si presenta un po’ più convenzionale e attento a non sollevare dubbi o a incrinare una visione della famiglia intesa come cellula fondante della società e microcosmo dove ogni componente può realizzare se stesso attraverso il rapporto con gli altri membri del nucleo.