La scelta del prologo di mostrare con dovizia di particolari la monotona routine quotidiana di McCauley e della sua famiglia, che abita nel sobborgo newyorchese di Tarrytown, si rivela funzionale al repentino cambio di tono e di ritmo impresso alla storia dall’incontro sul vagone ferroviario fra lo stesso McCauley, che come ogni sera rincasa dal lavoro, e la misteriosa e sfuggente Joanna, che lo coinvolge in un’avventura dove il protagonista dovrà togliere la maschera di tranquillo travet indossata dieci anni prima e iniziare un’indagine alla ricerca di un volto che non ha mai visto, ma sa essere sul suo stesso treno. Per McCauley comincia così una corsa fra i vagoni ferroviari in cerca di ogni faccia sospetta, mentre il regista tenta d’imprimere ritmo a sequenze girate in un unico ambiente, come le carrozze ferroviarie, dove si svolge gran parte del film.
Il pensiero corre subito ai film di Alfred Hitchcock, in particolare a Intrigo internazionale (North by northwest, 1959), dove un cittadino comune si trovava al centro di un complotto molto più grande di lui, dal quale soltanto a fatica e dopo molte prove riusciva a districarsi. A complicare il quadro, qui il protagonista vede colpiti anche i propri familiari, perché viene a sapere del rapimento, da parte dei cattivi di turno, della moglie Karen. McCauley si trova così costretto a giocare una partita dove l’uomo qualunque diventa cacciatore e combattente per salvare i suoi cari; una costante questa molto comune nel cinema americano, che sceglie di proposito personaggi privi di qualunque apparente qualità per rendere poi la loro trasformazione in uomini d’azione tanto più improvvisa e repentina quanto più sorprendente e appassionante per il pubblico.
Sul piano più squisitamente tecnico, la regia non si solleva molto dalla messinscena corrente, col largo abuso della CGI per risparmiare sulla costruzione dei vagoni ferroviari (una volta si sarebbero costruiti modellini, se non ci fossero stati i fondi per ricostruirli dal vero), un montaggio frammentato per conferire l’idea di una corsa contro il tempo e trasmettere allo spettatore la medesima tensione provata dal protagonista nella sua ricerca del personaggio misterioso da scoprire.
Il canovaccio, comunque, è identico a quello di molti film d’azione consimili; la trama de L’uomo sul treno di Jaume Collet-Serra è infatti la medesima, cambia solo il mezzo di trasporto, sia esso un pullman come in Speed (1994) di Jan De Bont o un aereo come nel più recente Red eye (2005) di Wes Craven (ma con uno occhio a Il Fuggitivo, 1993, di Andrew Davis). Qui ci troviamo su un treno adibito al trasporto dei pendolari, ma la sostanza non cambia. Nell’insieme, il ritmo si mantiene sostenuto e, se ci lascia prendere e non si pretende una coerenza che del resto non interessa nemmeno al regista e agli autori, e non ci si attendono sequenze d’azione mirabolanti (nulla che non si sia già visto prima) ed effetti speciali all’avanguardia, il tutto risulta piuttosto godibile; ormai giunta al quarto capitolo, la collaborazione fra il regista e l’attore comincia a mostrare segni di ripetitività e di stanchezza.
Per chiudere con una battuta: la stessa formula in un’altra ambientazione; nessuna sorpresa, dunque, tanto meno novità, ma la ripetizione di un canovaccio che, per quanto professionalmente sviluppato, sembra ormai aver poco da offrire. Un esempio di cinema preconfezionato e uguale a cento altre opere simili, tanto competente nella messinscena quanto vuoto di contenuti e privo d’inventiva. Il titolo italiano ammicca a un film della stagione scorsa come La ragazza del treno (The girl on the train, 2016) di Tate Taylor, oltre che al romanzo di Simenon L’uomo che guardava passare i treni (1938).