Nello sperduto paesino eponimo, la divorziata Mildred Hayes non riesce a superare il lutto per la morte violenta della figlia adolescente Angela, avvenuto sette mesi prima. Delusa dalla mancanza di progressi compiuti nelle indagini dalla polizia locale, con una brillante trovata, acquista lo spazio su tre manifesti pubblicitari (donde il titolo), che dichiarano a chiare lettere agli abitanti del paese e agli automobilisti di passaggio la macabra sorte toccata ad Angela e il disinteresse mostrato nella soluzione del caso dallo sceriffo Bill Willoughby.
Vincitore di quattro Golden globe (per il miglior film drammatico, la miglior sceneggiatura, la miglior attrice protagonista e attore non protagonista), Tre manifesti a Ebbing, Missouri si trova la strada spianata verso gli Oscar, forte dei premi conquistati e del consenso di gran parte della critica americana. Il regista di In Bruges – La coscienza dell’assassino (2008) questa volta dosa con maggior consapevolezza l’umorismo nero, il macabro e il dramma, e si tiene in bilico fra gli estremi con una certa destrezza. L’unica osservazione che si può fare è che, vista l’ambientazione nella provincia americana e la presenza come protagonista di Frances McDormand, il film sembra essere, per certi versi, una fotocopia di quelli dei fratelli Coen (lo stesso Harrelson, qui deuteragonista, aveva recitato in Non è un paese per vecchi), i quali notoriamente alternano ironia e violenza per denunciare le piaghe della società d’oltreoceano. Tuttavia, il film di Martin McDonagh risulta apprezzabile anche da parte chi non è un estimatore dei registi americani, a patto di accettarne la mescolanza di toni, spesso opposti, che lo caratterizza, e una certa leggerezza nel risolvere le situazioni più complesse.
Se le premesse paiono promettenti, col personaggio principale che sfida lo sceriffo sul suo stesso terreno, alienandosi così la simpatia dell’intera comunità, comprensibilmente poco felice di ricevere una tanto negativa pubblicità, lo sviluppo narrativo, con la redenzione del poliziotto cattivo, risulta scarsamente credibile e deludente. Nel tentativo, spesso assai sbrigativo, di assolvere i personaggi negativi, Tre manifesti a Ebbing, Missouri rivela una superficialità che finisce col far dimenticare una partenza interessante. In fondo, sembra suggerire il regista, l’antipatico Dixon, nel tentativo di sabotare il piano di Mildred, cerca soltanto di difendere la reputazione del suo superiore Willoughby e della cittadina in cui vive. È appunto in quest’ecumenismo che il film mostra la corda e si rivela incapace di scandagliare fino in fondo la psicologia dei personaggi, senza comprendere le motivazioni profonde del loro agire. Tutto rimane in superficie e lo spettatore si trova spesso disorientato dinanzi a una facilità che si rivela una mancata padronanza dei mezzi cinematografici. La regia tende inoltre a privilegiare le riprese in interni e ad affidarsi eccessivamente alla recitazione degli attori (specie ai duetti fra Harrelson e McDormand), stilema questo già abbondantemente adoperato (e finanche abusato), nel già menzionato In Bruges, in cui gran parte del film era imperniata sui battibecchi fra l’attempato e assennato Brendan Gleeson e il giovane e ardimentoso Colin Farrell.
Anche la questione dei conflitti razziali, all’ordine del giorno in America e specialmente in uno stato del sud come il Missouri, è affrontata troppo sbrigativamente, come se l’irlandese McDonagh, non possedendone una conoscenza diretta, non avesse gli strumenti culturali per una trattazione più approfondita e convincente. Quella rappresentata dal film costituisce dunque una comunità chiusa, indisponibile a tollerare la pubblicità e l’attenzione che l’iniziativa di Mildre provocano; i primi a esserne infastiditi, in quanto colpiti nella loro stessa professione, sono i personaggi di Willoughby e Dixon, sceriffo e vicesceriffo di Ebbing, che vedono le loro capacità investigative e il loro ruolo – e con essi l’autorità che ne consegue – messi a repentaglio dalle scritte campeggianti sui manifesti che dichiarano l’incapacità e il sostanziale disinteresse nella soluzione del caso.
Costantemente animato dalla volontà di rendere umani i suoi personaggi, il regista non riesce a renderli coerenti e a tutto tondo, complessi e sfaccettati come vorrebbe, e finisce col poggiarsi quasi interamente sull’abilità degli interpreti. Troppo facile appare anche la metamorfosi di Dixon, da picchiatore razzista a personaggio quasi positivo, o comunque facilmente perdonabile per i suoi crimini passati. In fondo, sembra dire il regista, ognuno ha le sue colpe: anche Mildred, dal canto suo, non è stata certo una madre tenera e comprensiva, né ha mostrato alla figlia quell’attenzione e quella dolcezza di cui avrebbe necessitato, in particolare in un’età difficile e travagliata come l’adolescenza. Tutti i personaggi, chi più chi meno, sono colpevoli di qualcosa e tutti possono, se davvero lo vogliono, espiare.
Questa dunque la morale del film: molto diversa, come si vede, dal cupo pessimismo che permea un’opera come il già menzionato Non è un paese per vecchi, senz’altro più coerente e conseguente nella rappresentazione di un mondo dominato dalla cupidigia e dalla vendetta, privo di qualunque possibilità e persino di volontà di redenzione. Qui, invece, si rimane su un livello molto più modesto e fin troppo propenso ad assolvere i torti, grandi e piccoli, di tutti i personaggi, siano essi madri assenti e distratte, poliziotti perbenisti e lassisti e persino i loro violenti e ottusi sottoposti. Troppo poco, come si vede, per conferire all’opera un autentico rigore morale e sollevarla al di sopra del livello di una commedia macabra, capace tutt’al più di strappare una risata, ma nulla di più; non certo di divenire una sorta di coscienza critica della società americana coeva.