Il processo di rinnovamento del cinema giapponese degli anni ’60 si configura sin dagli esordi per un violento ed esplicito desiderio di contestazione globale nei confronti del passato[1]. Il passaggio dal vecchio tradizionalismo rituale alla modernità si compie nei modi di una parabola repentina assai distante tanto dal sincretismo estetico che dall’emulazione occidentale. Le prossimità del nuovo cinema giapponese con la Nouvelle Vague europea – demolite in sede critica da un autore come Nagisa Ōshima – sono squisitamente fortuite, rispondendo di un medesimo clima culturale ma non delle stesse ragioni. L’orientamento copernicano dei nuovi cineasti non ammette deroghe d’indulgenza in quanto ciò che è compromettibile col mito della tradizione va bandito e posto in quarantena. Una parola d’ordine – negazione radicale – che farà dire a Ōshima: “Fino all’epoca in cui ho realizzato il mio primo lungometraggio ho sempre detestato tutto il cinema giapponese. Oggi continuo a detestarlo, compresi i miei film… Quando dico che detestavo il cinema giapponese, la parola che bisogna impiegare per definire il mio sentimento è proprio la parola “odio”. Ma questo odio significa anche che dal cinema giapponese ho molto appreso”.
Nei termini di un’esagerazione solipsistica e tutto sommato compiaciuta per l’inversione dei propri sillogismi, Ōshima compendia il più generale malcontento di una generazione ferita dal peccato della guerra atomica. Ciò nondimeno la tradizione metaforizza quel doppio legame che si compie nel momento stesso in cui vuole negarsi, coi suoi conflitti radicali e la prassi inalterabile di una complessa ritualità, nel movimento elastico che qualifica una nuova estetica del quotidiano con i paradigmi archetipali della conservazione; del resto ogni rovesciamento nutre al suo fondo terribili ossessioni. Nella storia del cinema giapponese Yasuzô Masumura è colui il quale ha compreso quei processi di frantumazione soggettiva e di polverizzazione sociale sorti nella gioventù postbellica, e li ha trasferiti in immagini facendo uso di un’estetica che ha tenuto in conto tanto il rigore delle strutture formali quanto le concezioni moderniste dei nuovi bisogni culturali. Di ciò, ancora una volta, si rese conto Ōshima che in un suo famoso saggio del 1958 dal titolo “Si sta forse aprendo una breccia?” definisce Masumura come il cineasta “che possiede una più profonda coscienza sociale” rifiutando l’immobilismo ereditario del Giappone. Contro il senso della rassegnazione e l’enfasi tipicamente melodrammatica del vecchio cinema, Masumura rovescia i principi del neorealismo – che pure sono a fondamento del suo percorso – per una rappresentazione esasperata e irriflessiva della gioventù all’interno di un immaginario individualistico e liberatorio. Lui stesso scrive, intervenendo in sede critica su alcune accuse addebitate al suo primo film: “Si dice che la mia opera sia arida e priva di sentimento. È stata accusata, inoltre, di enfatizzare la comicità dei personaggi, di essere frivola e di avere un senso della realtà insufficiente. Il tempo è smoderatamente veloce e manca la descrizione dell’ambiente e dell’atmosfera, per cui il lavoro risulta arido e freddo. Queste critiche sono tutte giuste, da un certo punto di vista. Tuttavia, se una mia apologia potesse discolparmi, vorrei dire, appunto, che deliberatamente rifiuto il sentimento, altero la realtà e nego l’atmosfera (…) Io odio il sentimento, e ciò è dovuto al fatto che nei film giapponesi esso è rappresentato in maniera controllata, armoniosa, rassegnata, triste, perdente e sfuggente. Per i giapponesi, il sentimento non è dinamismo, né antagonismo, né combattimento stressante, né felicità, né vittoria, né inseguimento. Il sentimento è fondamentalmente un’emozione, e dovrebbe indicare un’esaltazione di tutte le passioni; ma per i giapponesi, chissà da quando, è solo una manifestazione negativa e passiva (…) Naturalmente, quando si parla di espressione, un elemento puro e semplice può non sapere di niente; ma quanto più la si controlla, diventa tecnica raffinata e la si eleva ad arte (questo è forse lo spirito dello haiku). Proprio l’altruismo, del resto, nasce dal fatto che un uomo è un essere umano e il senso di dividere uno spazio ristretto o un misero cibo è un sentimento che, in questo mondo pieno di problemi, gli uomini dovrebbero possedere. Nonostante tutto però, a me piace l’espressione aperta, primitiva ed egoistica. I giapponesi reprimono troppo i loro desideri e rinunciano troppo facilmente alle loro convinzioni. A volte, inebriandosi di questo controllo, finiscono per uccidere, col pretesto dello spirito di sacrificio, i loro desideri originali. Nel Giappone d’anteguerra, non si può dire che non ci fosse democrazia. Quanto meno la gente dell’era Meiji era libera; tuttavia, quando la pressione del governo aumentò, si rinunciò anche alla libertà individuale. Poi, col passar del tempo, la gente si abituò alla rinunzia del proprio Io e arrivò ad abbandonare con rassegnazione o addirittura con gioia i propri desideri più importanti, quali la libertà, l’amore e perfino la propria vita, in nome del sistema imperiale. Noi giapponesi, perciò, prima di tutto dobbiamo imparare ad esprimere meglio noi stessi, senza rinunciare al nostro Io. Fuggiamo le tinte grigie della repressione e del sacrificio e ritorniamo alle tinte luminose che esprimono a pieno il nostro intimo! Comunque sia, in questa realtà giapponese piena di attriti, i colori sbiadiscono subito e si sporcano. Per questo motivo, non provo né interesse né attrazione per il sentimento, che si inebria della sconfitta e del sacrificio”[2].
Siamo di fronte al primo manifesto coscientemente strutturato del Nuovo Cinema Giapponese in cui la rappresentazione della realtà sensibile rifiuta l’individuo come puro spirito sovrasensibile per portarlo a processo in termini di relazione sociale. La follia dei personaggi di Masumura, con la loro irragionevolezza disordinata, non è altro che l’esito di una spaventosa conformità sociale che ha prodotto l’anarchia consumistica del capitalismo e i demoni privati di una sessualità mercificante e reificata; contro questo paesaggio desolato, la lotta solitaria degli individui a tutela della loro integrità morale. Dal 1957 Masumura si è speso con intensità realizzando numerose pellicole, che, pure altalenando nel tono e nella qualità tra cinema d’autore e ammiccamenti al genere di consumo, rappresentano la disperata vitalità di un autore che ha saputo di fatto consentire l’emancipazione estetica dei cineasti della generazione successiva. Ciò ha comportato una chiara scelta e degli evidenti costi; accettando di lavorare per la produzione industriale del rigidissimo oligopolio cinematografico giapponese, Masumura si è costretto ad una situazione che, se da un lato lo poneva in uno stato di necessaria subordinazione ai vincoli delle compagnie, d’altra parte gli consentì un’incidenza culturale verso un più vasto pubblico. Il cinema indipendente difeso nella sua libertà e nel suo utopismo da alcuni autori, di fatto era fruibile solamente nel circuito underground o nelle sale d’essai, limitando fortissimamente l’estensione del discorso per un’assenza di relazione reale col pubblico; l’isolamento finiva così col comportare anche l’impossibilità di accedere operativamente alle grandi case di produzione allignandovi le nuove ipotesi di una palingenesi culturale. All’interno di un cinema alimentare e generico come il pinku eiga e lo yakuza eiga, sui cui paradossi si sostanziarono poi alcuni dei cineasti più radicali, Masumura ha costruito il suo discorso eludendo il canone classico e sfruttando entro i limiti concessi, e talvolta molto oltre gli stessi limiti, lo svolgimento di un’espressività ambiguamente libera. Come per tutto il nuovo cinema degli anni ’60 si è trattato di aggredire la produzione industriale sino a rovesciarne la resistenza tradizionale in favore di una sensibilità atta a costringerne una capitolazione non in termini economici ma di nuova cultura, adoperando le sue medesime strategie per quel necessario dissolvimento verso i paesaggi frastagliati e terribili della modernità.
Dal suo primo film Kuchizuke (Il bacio), storia di un giovane che per la prima volta non proviene da un ambiente borghese ma dal sottoproletariato e che, a differenza dei suoi coetanei languidi e annoiati, sfoga la propria frustrazione attraverso l’azione insensata, a Kyojin to gangu (Giganti e giocattoli), satira grottesca e spietata del capitalismo del dopoguerra, Masumura interpreta sperimentalmente le tensioni e le ambiguità sociali del Giappone del dopoguerra. I suoi film “si distinguevano per il ritmo serrato nel montaggio e nei dialoghi, per la selezione di angoli acuti, spesso ripresi dal basso, oltre che per le inquadrature colme di corpi, prepotentemente affermati sull’ambiente, con cui ritraeva vorticosamente personaggi dalla spiazzante modernità: gente comune, spesso di ceti meno abbienti, che animano le immagini nel segno di una quasi totale assenza di toni sentimentali e un “umano” egoismo”. Come si può immaginare, la formula da lui selezionata si contrapponeva polemicamente allo stile e ai contenuti delle opere di “grandi autori”, in particolare di Ozu, registi di cui Masumura denunciava, anche attraverso alcuni suoi saggi pubblicati in riviste di cinema, l’incapacità di dar voce alle vere emozioni e desideri, preferendovi atmosfere liriche e piene di convenzioni retoriche, con cui non si esprimeva che un triste segno di rassegnazione verso ciò che riserva l’esistenza (…) Nel corso del decennio successivo, il cinema di Masumura si arricchì di nuove caratterizzazioni, concentrandosi su personaggi, in particolare femminili, dall’ego forte, che con orgoglio — spesso attraverso le maglie della violenza — rivendicano la realizzazione dei propri desideri e l’affermazione della propria individualità. E’ dunque la descrizione di donne che non si limitano a sopravvivere in una società in rapida mutazione, ma pretendono a voce alta il diritto di esplorare nichilisticamente la propria natura, al di fuori delle strettoie politiche e sociali. Un messaggio che si pone in attrito con il criterio di sacrificio a cui erano stati chiamati i giapponesi nel dopoguerra, e che prevede invece la presenza di schegge impazzite nel diffuso corporativismo. A rafforzare questa posizione, sono spesso due donne che insieme animano le sue opere, subissando con la loro presenza quella dei personaggi maschili e rendendo ancora più estrema la falla nella società”[3].
Dagli anni ’60 Masumura adopera violentemente i mezzi del simbolismo sessuale nel solco di un desiderio progressivo e anticonvenzionale che incarna lo smarrimento drammatico della soggettività contemporanea; se talora il suo erotismo ha squisitezze calligrafiche di compiaciuta eleganza inclinando al gusto commerciale – con l’adattamento per alterne vicende di numerose opere letterarie -, non v’è dubbio che la frattura col vecchio cinema si compie senza il rammarico di alcun ritorno preludendo anzi al sottogenere della protopornografia politica dei pinku eiga con il suo orientamento libertario e convulsamente anticonformista. In questo senso un film come Akai tenshi (Nuda per un pugno di eroi) – che adopera il tema della degenerazione sessuale come allegoria di un abnorme quotidiano sociale – si pone per certi aspetti come sintesi esemplare di un percorso altrove convulso e incongruente sui paradossi tragici di una condizione esistenziale fratturata tra alienazione[4] e rivolta. Allora, se Masumura non può dirsi il cineasta più rappresentativo del Giappone, egli ha certamente avuto il merito di precorrere le linee di una politica degli autori originale e feconda e soprattutto in grado di coscientizzare con un’azione artistica spregiudicata e viscerale le ambigue trame del presente.
Beniamino Biondi
[1] Per ulteriori approfondimenti cfr. Beniamino Biondi, Cronaca di una farfalla in lutto. Scritti sul Nuovo Cinema Giapponese, Teramo, 2011.
[3] Maria Roberta Novielli, Rassegna Yasuzo Masumura, Retrospettiva, 18 gennaio-21 marzo 2011
[4] Nella prospettiva marxiana per cui l’alienazione sociale non può essere risolta in un individuo concepito nel modo astratto e illuministico di un tipo generico, isolato e non esistente nella realtà.