Enrico Vanzina e Giovanni Berardi
Dice Enrico Vanzina: “capto nel tuo discorso introduttivo una domanda: a che serve il cinema? Ti rispondo subito: intanto per ridere a crepapelle se possibile. Ma anche a riflettere, ad emozionarsi, a piangere, a provare spavento anche, certo. Oppure raccapriccio. A questo soprattutto serve il cinema”. E’ una bella, grande, semplice definizione questa di Enrico Vanzina, in fondo, tra tanti discorsi, una sintesi così precisa e così spontanea non l’avevamo ancora udita, perduti, come erano stati altri intellettuali o addetti ai lavori del cinema, incartati spesso tra le parole più accademiche, esagerate anche, ed in ogni caso, qualche volta, anche persino vuote. Ed è una sintesi, come ci pare di capire, saltata nella mente ad Enrico Vanzina una vigilia di Natale di tanti anni fa. Dice Enrico Vanzina: “è successo all’ospedale Umberto I di Roma in un giorno per me molto triste. Lo racconto perché è una cosa a cui tengo davvero e mi riempie, francamente, di orgoglio. Il figlio della mia compagna aveva avuto un grave incidente con il motorino. Di corsa raggiungiamo l’ospedale. Salite con molta ansia le scale, giungiamo al reparto. La prima cosa che mi capita di sentire, proprio decise, sono delle risate, davvero fragorose, divertite, spensierate, una grande improvvisa aria di allegria tra tutti quei dolori. Mi accorgo all’ istante che in televisione stavano programmando un nostro film, Vacanze in America, mi fermo un attimo, contento e divertito, a vedere tutti quei degenti per un attimo mettere da parte le loro sofferenze e partecipare in gruppo al divertimento del film. Ho capito in quel preciso frangente di avere sempre fatto delle cose degne, delle cose giuste, veramente utili per l’umanità”.
Enrico ha usato il termine proprio di “nostro” quando ha riferito il titolo de Vacanze in America ed in effetti quando si parla di Enrico in definitiva si parla anche di Carlo, il fratello regista, talmente coordinate ed unite sono ormai le loro filmografie. Enrico e Carlo Vanzina oggi sono sugli schermi italiani con Un matrimonio da favola. Anche questa volta nessun critico ha gridato per loro al capolavoro filmico, ma quello che è certo è che i Vanzina non hanno mai cercato di raggiungere questo tipo di valore per il loro cinema. Ma Un matrimonio da favola è un film tutt’altro che brutto, tutt’altro che superficiale ed inutile, come da più parti si sente dire, in riferimento anche al complesso della loro opera. In qualche maniera noi apparentiamo Un matrimonio da favola ad una precedente pellicola del duo – almeno nelle caratteristiche e nelle atmosfere sempre garbate e ridanciane le abbiamo trovate coerenti -, Il pranzo della domenica, 1990, un’opera dalla quale eravamo usciti piuttosto contenti. Un matrimonio da favola rimane un’opera certamente al di sopra delle cose “italiane” che il cinema di oggi riesce ancora a produrre: si va da Un fidanzato per mia moglie di Davide Marengo a Una donna per amica di Giovanni Veronesi, da Ti ricordi di me di Rolando Ravello, a Stai lontana da me di Alessio Maria Federici e a Ti sposo ma non troppo di Gabriele Pignotta, opere persino nei titoli ripetute, ossessive, dove il dramma ed il comico richiamato risultano forse inadeguati ed impreparati, castrati a dovere dalla morale imposta ai nostri autori ormai anche dall’autocensura, una censura certamente più bieca, disonesta se vogliamo, della censura di vecchia data, quella della prassi e del potere. Questo perché il destino finale ed importante, anzi necessario, per il cinema italiano rimane la televisione e non più la deputata sala cinematografica. Anche il film precedente dei Vanzina, noi non lo abbiamo disdegnato affatto, Sapore di te, un film che è, dichiaratamente un seguito, anche se non ne riprende i personaggi, di quello che ormai rimane un classico della loro filmografia, Sapore di mare.
Dice infatti Enrico Vanzina: “in Sapore di mare c’era la nostra giovinezza a sostegno della tesi vacanziera, qui, in Sapore di te, c’era piuttosto la maturità”. Noi tutto sommato vi abbiamo trovato anche, nelle due pellicole, quella che chiamiamo un’intercettazione verso la passione musicale e per il revival. Dice Enrico Vanzina: “anche. Ma sono pellicole che invitano soprattutto a ricordare. Perché una popolazione che non ricorda non pensa. E se non si pensa forse si rischia anche di non sapere più parlare. Nel nostro piccolo, in fondo, vogliamo testimoniare anche questo tipo di filosofia”. E ritornando al concetto di capolavori, se ce ne fosse il bisogno, comunque mai assolutamente riconosciuti ai Vanzina, anzi, proprio dopo quello che ci ha raccontato in apertura Enrico, pensiamo che il capolavoro, quello ricercato dai critici, resti nella loro mente, veramente, un motivo decisamente effimero, superficiale, anche rifiutato. D’altronde Enrico e Carlo sono figli del grande Steno (1916-1988), che ha sempre concepito il cinema come un onesto motivo per fare ridere un pubblico assolutamente genuino, semplice, autentico, verace. Come quello di nostro padre, dice Enrico, “il nostro è un cinema assolutamente dalla parte del pubblico”.
Piace ricordare però, e vogliamo farlo proprio in questo contesto di famiglia, come papà Steno, che notoriamente non era certo un uomo propriamente orientato politicamente a sinistra, dopo aver scritto un copione che non aveva intenzione di girare personalmente, il concreto La polizia ringrazia, 1972, in realtà non riuscì a trovare nessuno a cui affidare il progetto. Un po’ a malincuore, pensiamo (il forte dubbio che lo condizionava in questo progetto era forse di distrarre un po’ il suo pubblico abituale, sempre divertito e tranquillo) comunque decise di realizzarlo personalmente. E fu un grande film ed un successone, qualcosa che darà poi l’avvio finalmente al fortunato filone del poliziesco all’italiana, e qui che trovarono poi effettivo riscontro e forti motivi di espressione spettacolare i nostri grandi registi di genere, Umberto Lenzi, Alberto De Martino, Stelvio Massi, Enzo G. Castellari, Sergio Martino. Il motivo del rifiuto di tanti registi contattati da Steno era dovuto al nocciolo della trama de La polizia ringrazia: un’indagine della polizia di stato verso una squadra che si era definita anticrimine, nata con l’intenzione di colpire quei criminali contro i quali la polizia ufficiale appariva sempre impotente. Ma dietro questa squadra in realtà si nascondeva una potente associazione fascista e golpista, la Fidelitas, animata soprattutto da magistrati e militari in pensione che ipotizzavano un regime autoritario da instaurare con ogni mezzo possibile in sostituzione di quello democratico. La trama era questa, e nonostante il successo di pubblico, La Polizia ringrazia fu comunque accusata di essere una pellicola reazionaria e violenta. Diceva Steno a suo tempo: “avevano tutti paura di parlare male della polizia, in particolare i miei colleghi di dichiarate idee politiche di sinistra, a cui volevo in fondo affidare il progetto per la realizzazione. Per questo motivo mi ritrovai a dirigerlo io, con convinzione devo dire. Poi per non fraintendere completamente il mio pubblico decisi di firmarlo con il mio nome esteso, quello anagrafico: Stefano Vanzina”.
Noi pensiamo che i film dei Vanzina, come quelli (molti) anche del padre Steno o di altri maestri, vedi Risi Monicelli o Comencini, non si sono mai colti davvero e capiti veramente nei tempi deputati. Non si è capito perché, anzi, erano nati proprio in quel preciso momento, nessuno se lo era mai chiesto. Ed invece sarebbe stato, pensiamo, un motivo preciso di comprensione. Ugo Pirro, grande amico di Enrico, senz’altro anche un suo maestro, ad esempio vedeva in La poliziotta un autentico film caposaldo del periodo. Diceva Pirro: “cosa succedeva nel 1972? Vedi La poliziotta e lo capirai fin troppo bene”. Ora nei film di Enrico e Carlo, si insomma dei Vanzina, nelle sceneggiature del solo Enrico, pensiamo anche nelle pellicole più semplici od ingenue, il valore antropologico decantato dalla tesi di Ugo Pirro lo si riconosce appieno, anzi in questo senso sono proprio i loro film degli autentici capisaldi per la definizione della storia del costume italiano contemporaneo. Bastano pochi titoli, in fondo, tra le innumerevoli sceneggiature firmate (per Enrico in totale sono un numero ormai intorno ai cento) per la conferma in proposito: Febbre da cavallo, 1976, Steno, La patata bollente, 1979, Steno, I fichissimi, 1982, Carlo Vanzina, Il ras del quartiere, 1982, Carlo Vanzina, Eccezziunale… veramente, 1983, Carlo Vanzina, Sapore di mare, 1983, Carlo Vanzina, Vacanze di Natale, 1983, Carlo Vanzina, Al bar dello sport, 1984, Francesco Massaro, Il commissario Lo Gatto, 1986, Dino Risi, Yuppies. I giovani di successo, 1986, Carlo Vanzina. Anzi, in questo senso, se vi è una protesta da montare, da parte nostra, che rimaniamo ancora soprattutto spettatori appassionati, sarà quella del perché non volere più tentare di esagerare fortemente sui motivi del linguaggio, sul lavoro dei gerghi, sul lessico, così centrali e precisi in fondo nei lavori con Renato Pozzetto oDiego Abatantuono prima e con Maurizio Mattioli o Rocco Papaleo dopo, anche nelle commedie più riuscite con Christian De Sica e Massimo Boldi, ed anche sui tic esistenziali di alcuni personaggi piuttosto che di altri. Insomma ci mancano davvero battute semplici e decise come “‘a Iside, e famme na pompa..”. Enrico Vanzina risponde, a nostro parere, ad una generazione precisa, una generazione davvero pregna di memoria e di cultura cinematografica. Il padre, Steno, frequentava abitualmente scrittori come Ennio Flaiano, Ercole Patti, Vitaliano Brancati, intellettuali come Leo Longanesi, nonostante poi, e tranquillamente, girava film di ogni tipo, con Totò e Aldo Fabrizi, Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, con Bud Spencer ed il suo eroe Piedone ad esempio, anche se erano film decisamente adeguati ai tempi culturali, alle misure culturali della grande massa, non certo decisi e buttati lì tanto per gradire. Da bambino Enrico è quindi cresciuto tra le braccia di tali eccelse culture e di tali eccelsi protagonisti dello spettacolo. Enrico ha percorso in questo proscenio esistenziale davvero tutto il grande cinema italiano, e la grande letteratura, degli anni sessanta prima e poi quello e quella degli anni settanta, diventandone, di quest’ultimo periodo, certamente un protagonista.
Dice Enrico Vanzina: “conservo una foto di Totò con l’impermeabile ed il cappello di scena. Mi tiene per mano. E’ una foto bellissima che mi ricorda ogni giorno le mie origini, quelle della commedia all’italiana. Io vengo da li. Ed in quella tradizione voglio continuare. Ma esiste anche un altra foto: io tra le braccia di Aldo Fabrizi, vestito da guardia. E’ straordinario, da come lo guardo in quella foto si capisce che già a due anni avevo intuito che quell’omone era uno dei più grandi attori italiani di tutti i tempi”. Magnifico. Questo era il set de Guardia e ladri, diretto nel 1951 da Steno e Mario Monicelli. Quando Enrico Vanzina ha pubblicato il suo libro, Commedia all’italiana. Ritratto di un paese che non cambia, la dedica, al momento del messaggio da incidere sul libro, e per darci una risposta, a noi che gli chiedevamo, solo non più tardi di quattro anni fa, tutto sommato quella che era una sorta di tornaconto, che so anche un motivo, rispetto alla nostra delusione, forse anche alla sensazione di continuare a provare quella che sembra una concreta assenza dello spettacolo nel cinema italiano attuale, di questi ultimi ed ormai troppi anni, “di un cinema italiano che forse davvero non incide e non lo farà più sul palcoscenico mondiale”, Enrico Vanzina ha scritto: “il Cinema italiano esiste ancora, in queste pagine. Spero”. Forse la sua dedica è una conferma alla nostra implicita domanda?
Giovanni Berardi