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In Sala

Piccola patria

“Piccola patria” è un buon tentativo, tra l’altro inconsapevolmente attuale, di sondare un’aggregazione culturale in cui, a distanza di 150 anni dall’unità, serpeggia una tensione separatista

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Anno: 2013

Distribuzione: Cinecittà Luce 

Durata: 111′

Genere: Drammatico 

Nazionalità:  Italia 

Regia: Alessandro Rossetto 

Data di uscita: 10 Aprile 2014

In una provincia veneta non identificata Luisa e Renata desiderano la metropoli. Per poter raccogliere denaro mettono in piedi un ricatto ai danni di Rino, amico del padre. Protagonista inconsapevole del piano è Bilal, ragazzo di Luisa, collega albanese all’ albergo dove le ragazze lavorano. Il ricatto innescherà rotture e riparazioni negli schemi relazionali del paese.

È la coniugazione fra la panoramica muta ora dall’alto ora rasoterra del territorio veneto, pervaso di rivendicazioni indipendentiste – e l’immersione nelle rivendicazioni stavolta emotive ed identitarie dei personaggi – la figura retorica centrale del film.

L’esile sceneggiatura fa sì che il flusso filmico si presenti spesso in forma più distesa e meditativa, a volte travalicando la dimensione di fiction, sfociando o in un immagine cartografica, satellitare dei territori o in una etnografica (vedasi la festa di paese cosi simile ad alcune immagini degli stati del sud degli states). La tessitura di queste due tensioni non fiction del film crea la dimensione riflessiva della pellicola: l’impossibilità di legare le persone ai territori sconfessa il rapporto di sangue e suolo rivendicato dai movimenti indipendentisti. Le cartografie satellitari non ci permettono un’esatta collocazione topografica della provincia veneta ma ci pongono di fronte ai non luoghi di augeiana riflessione; capannoni e strade sterrate non sono certo prodotti urbanistici in grado di condurci alla comprensione della cultura che li abita. L’esplorazione etnografica ci presenta ritrovi e feste di paese indistinguibili, ormai pervasi post-modernamente da apparizioni e simboli americani. Le danze di gruppo con i cappelli da cowboy avvicinano il nordest italiano al sud degli U.S.A. refrattario e reazionario, che ancora espone la bandiera dei confederati, insomma ci fa riflettere sulla costruzione identitaria nella condizione post-moderna: arbitraria, infinitamente combinabile, in grado di nutrirsi di sovrastrutture e fantasmi slegati e ricollocabili in qualsiasi contesto, soprattutto ottenibile per differenza, dai foresti  in questo caso.

Si pensi a questo proposito ai recenti paralleli fatti dai nuovi serenissimi  ai popoli baschi e scozzesi. Fenomeno esemplificato dal discorso pronunciato dal retore durante il ritrovo a salcicce e birre che invita i partecipanti a chiudere gli occhi e distanziarsi almeno per un minuto dal racconto televisivo dell’Italia per costruirsi la propria personale patria. Processo che dà vita ad una sequenza autistica, vacua, perché rimane invisibile per noi spettatori il territorio emotivo che i personaggi vanno costruendosi, così simile a quei meccanismi di autopersuasione portati avanti da una certa cultura che preleva ritualità orientali per applicarle a strutture occidentali e che professa la precedenza che ha la figurazione inconscia del futuro sul suo reale dispiegarsi, rinunciando spesso ad un corpo a corpo con il reale.

I tentativi della sceneggiatura di esplorare l’interiorità dei protagonisti giungono anch’essi ad un assenza voluta di senso. Figura esemplare di quest’ impossibilità di inoltrarsi nelle profondità emotive che darebbero vita ad una risonanza fra passato e presente è Franco, il padre di Luisa. Simile al De Niro di Taxidriver, impugna una pistola invisibile, è perennemente perplesso, insondabile nei suoi detour  televisivi e provinciali. Si accende solo per invettive xenofobe a volte anche sbagliate (chiama negro Bilal),  totalmente incapace di ristabilire legami di senso fra i suoi simili ed a aiutarci a stabilirne uno fra le inquadrature. Insomma una Patria senza Padri.

Luisa rimane l’unica figura in grado di riscattarsi dal nulla del suo Heimat. Riscatto ottenuto corporalmente chiuso in una domanda di senso continua posta al reale di fronte a lei ed al suo corpo a contatto con quello di Bilal. Impugna due volte nel corso della narrazione un registratore vocale a cui si rivolge con periodi semplici: “Bilal è …”, “Renata è …”. Per poi ascoltarsi e probabilmente autodefinirsi. Un quesito oracolare che ha come risposta un enigma. A questo proposito il video e le foto, strumenti di ricatto per Rino diventano ulteriori fantasmi e tracce insondabili dello scorrere del tempo per lei. Insomma testimonianze di per sè di un processo in corso e modificabile, modellabile accordandolo con i propri desideri. È appunto di un desiderio sessuale limpido confrontato con quello di Renata e Rino ciò di cui è capace, e che le rende possibile fendere il mondo in aperture di maggior respiro, le uniche nel film. Luisa impara il cinese, aiuta a fuggire da un centro di detenzione per clandestini il cugino di Bilal, insomma si prepara per la costruzione della propria patria, per cui è imprescindibile la relazione con l’altro da sé.

Detto questo anche la sua figura non ci regala la verbalizzazione attesa, la lite sul tetto con la sua complice Renata finisce a schiaffi, che quest’ultima accetta senza rispondere né con la voce né con le mani. Il duello risolutivo fra le due è solo un eccesso locomotorio quasi senza pensiero di Luisa, che termina con i tremiti fra le braccia della madre e si spegne in singulti.

Forse solo il Vecchio, così nel film, mettendoci al corrente che la struttura teatro degli incontri sessuali del gruppo era in passato un punto di ristoro per pellegrini, procede a dialettizzare il territorio col suo passato, ora punto di passaggio, terreno posto in continuità col mondo circostante.

Dal punto di vista della tensione narrativa si ha l’impressione di un film di cui è difficile impossessarsi, che, anche se volutamente, sceglie uno stile liquido e disteso, rimane distante. I suoi punti forti rimangono i momenti extra-filmici, quelle tensioni documentarie che arricchiscono e accendono di riflessioni ulteriori i 111 minuti. Il prologo e l’epilogo, fredde panoramiche su capannoni industriali che dialogano con i cori neo-alpini, e le sequenze della festa e della riunione indipendentista.

Piccola patria è un buon tentativo, tra l’altro inconsapevolmente attuale, di sondare un’aggregazione culturale in cui, a distanza di 150 anni dall’unità, serpeggia una tensione separatista, che vuole una separazione politica nella rinuncia più totale di un indagine storico-culturale, economica, e, per quanto riguarda la finzione narrativa, anche psicologica ed emotiva. Già indipendente perché alienata, chiaramente è una riflessione estendibile al di là del nord est italiano.

Gianluca Bonanno

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