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Interviews

Master Blaster incontra Claudio Lazzaro

Incursioni nella cultura metropolitana. Rubrica a cura di MASTER BLASTER…

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Lazzaro

La camera delle bestemmie, un pomeriggio di gennaio, quasi puntuale, colonna sonora: Variazione Goldberg N° 2 di Johann Sebastian Bach.

“Imbarazzo” è la parola che mi viene in mente per iniziare il pezzo di questo mese e prima che i maligni diano fiato alle trombe, li anticipo dicendo che esso non è dovuto al fatto di essere quasi puntuale, né al fatto che non mi piaccia l’argomento che vado a trattare.

Scrivendo per Taxidrivers ho scoperto che una delle doti fondamentali per fare questo lavoro risiede nella faccia di bronzo che si riesce a sfoderare di volta in volta per mostrarsi all’altezza del proprio interlocutore, o almeno per far finta di sentirsi perfettamente a proprio agio con persone che  nel bene o nel male hanno fatto qualcosa più di te.

A colui che deve raccontarle, in maniera diretta o involontaria, è in qualche modo affidato anche l’arduo compito di esprimere il proprio punto di vista sul loro operato, che per quanto  lieve o attenuato, resta sempre una sorta di giudizio.

Ed ecco perché, scrivendo di Claudio Lazzaro, per la prima volta in vita mia mi sento come se stessi camminando sulle uova, cercando di non romperle.

Il problema non è certo né Claudio in sé, che  al contrario si è dimostrato un vero gentiluomo, né il suo lavoro, che stimo e trovo massimamente godibile.

Non ci sono cazzi!

Temo proprio che per farvi capire i motivi del mio imbarazzo io debba farvi fare un bel salto indietro nel tempo e farvi partecipi di un po’ di fatti miei.

Non che pensi che a voi possano interessare granché i miei trascorsi tardo-adolescenziali, tranne che ai più  voyeur, ma forse, conoscendo gli antefatti della storia, qualcuno potrà essere indulgente con il sottoscritto, anche se in fondo non ci spero molto.

Era il lontano 1997 e all’epoca impazzava la X-Files mania.

Tutti stravedevano per l’interminabile serie di Chris Carter che all’epoca non mostrava ancora segni di stanchezza. I primi cosplayer ante litteram già si divertivano a copiare il look dei protagonisti Mulder e Scully e anche i fan più moderati non lesinavano nel comprare decine e decine di vhs per registrare e rivedere le puntate più belle.

Ovviamente io non facevo eccezione. Quell’anno poi, al cinema Giulio Cesare di Roma, venne proposta la prima (e a quel che ne so, anche ultima) maratona X-Files in Italia, dove sarebbero state proiettate per tutta la notte e gratuitamente le più belle puntante del telefilm cult.

L’evento fu pubblicizzato con tutta la grancassa mediatica che l’allora circuito dei Cinema 5 poteva permettersi e vi assicuro che non era poca cosa. La risposta fu veramente notevole.

Una coda interminabile di persone, fin dal primo pomeriggio, iniziò ad assieparsi davanti alle porte della sala. Io stesso che quell’anno prestavo il servizio civile in Umbria, presi tre giorni di licenza e mi sobbarcai un discreto viaggetto in treno pur di poter partecipare.

La situazione era tranquilla, il clima era quello di una festa, quando il Leonardo da Vinci che dirigeva il cinema in questione, spaventato dall’afflusso di gente che anche un criceto autistico avrebbe potuto prevedere, con la naturale sagacia che già da allora contraddistingueva i dipendenti di Silvio Berlusconi, decise, con la sala ancora mezza vuota, di chiudere le porte del cinema di punto in bianco, per non aprirle più.

Più di tre quarti della gente rimase attonitamente esclusa da quel bel gesto, sbigottita e confusa davanti ai cancelli chiusi.

Mentre arrivavano anche un paio di cellulari della polizia in assetto antisommossa, prontamente chiamati da quella mente eccelsa del direttore che quel giorno era in vena di colpi di genio a ripetizione – o che forse, dirigendo un cinema mediaset, non aveva mai visto degli appassionati di cinema, che ai suoi occhi dovevano apparire come una turba di rabbiosi bolscevichi, pronti a dare l’assalto ai palazzi d’inverno, per costringere tutta la cittadinanza a infinite repliche de “La corazzata Potemkin” con dibattito annesso.

Che dire? Messa così, oggi posso anche capirlo.

Fatto sta che, manco a dirlo, nel novero dei trombati c’ero anche io.

Dopo un paio d’ore, le prime defezioni cominciano ad assottigliare la folla. Al tramonto non restavano che una ventina di irriducibili, convinti che il numero ridotto di persone e lo spirito pacifico fin lì dimostrato, potesse portare una folata di buon senso o almeno di buon cuore nella cavità cranica posta sopra l’inamidatissima camicia del solerte direttore.

Inutile dire che passammo la notte inutilmente all’addiaccio. Le porte del paradiso restarono sigillate e io dovetti accontentarmi di rivedere le puntate previste nella proiezione in videocassetta, nella solitaria intimità di casa mia.

Però tra le anime dannate di quella notte fuori i portoni del cinema si aggirava un cronista del Corriere della Sera.

Per l’appunto Claudio Lazzaro!

In quegli anni stavo maturando il proposito di diventare un imbrattacarte e Claudio, per come mi si presentò, incarnava a pieno l’archetipo di come doveva essere un vero giornalista.

L’impermeabile, il taccuino, ma soprattutto la curiosità.

Era venuto per un normale pezzo di cronaca su quello che era un fenomeno di costume e spettacolo, eppure a parte un paio di rapide ricognizioni nella sala, ed è questo quello che mi colpì di più, lui preferì stare con noi.

Ho un ricordo più che vivido di Claudio che si aggirava tra gli esclusi della kermesse ponendo domande intelligenti, con un rispetto che mi lasciava quasi imbarazzato e una curiosità che andava ben oltre quella dovuta ai fans di un normale fenomeno di costume.

Non c’è niente da fare, quel modo così poco ortodosso e niente affatto supponente era affascinante e, anche se non gliel’ho mai detto, fu molto probabilmente lui a darmi la spinta definitiva verso il mestiere di scribacchino.

Ed ecco spiegato, per chi ha avuto la pazienza di leggermi fino a qui, il motivo di tanto imbarazzo nel dover parlare di Claudio e del suo lavoro.

Stando seduto davanti a lui nel salotto della sua casa romana era come se stessi tratteggiando l’ultima parte di un cerchio che si chiude.

Credo che anche lui lo abbia percepito, tant’è che con i modi gentili che lo caratterizzano, invece di procedere ad una normale e accademica intervista, mi mette subito a mio agio facendomi vedere alcuni bei volumi che insieme alle attrezzature da ripresa costituiscono sicuramente le più belle suppellettili  del suo appartamento.

Ovviamente, da veterano quale è, Lazzaro sa benissimo come condurre un’intervista e certamente come affascinare il suo interlocutore.

Così, senza quasi che me ne renda conto, si passa dalle chiacchiere sul più e sul meno, alla vera materia della questione.

Classe 1962 con all’attivo oltre trent’anni di giornalismo da trincea, inizia all’Europeo per poi passare dieci anni al Corriere della Sera mantenendosi nonostante tutto indipendente. Non è cosa da poco ma è la conditio sine qua non per creare e mantenere nel tempo il rapporto con il lettore, più che con la testata alla quale si presta la firma.

Con i modi cortesi che in nessun modo smussano il filo al bisturi con cui seziona le notizie, ricorda molto la vecchia scuola cui apparteneva anche Enzo Biagi nella quale i fatti e le opinioni non si urlavano, ma si esponevano, senza per questo perdere di lucidità, chiarezza e autonomia. Non a caso il libro che lo ispira è “Senza chiedere il permesso” di Faenza.

Non è quindi strano che ad un certo punto della sua carriera anche Claudio Lazzaro subisca la seduzione dello strumento audiovisivo come mezzo di eccellenza per la pratica della controinformazione. Questo è infatti ciò di cui oggi si occupa Claudio con i suoi documentari.

Dopo l’esperienza all’Europeo cominciò ad interessarsi di cinema, vissuto da cronista e non come mera enunciazione dei fatti, ma come vera e propria scuola di formazione.

Con il passare degli anni fare del giornalismo indipendente divenne sempre più difficile e quella libertà di giudizio che doveva essere una dote naturale per chi volesse fare informazione cominciò ad esser vista sempre di più come un limite nel mondo di giornalisti embedded che popolano l’asfittico mondo della carta, stampata e non, con cui oggi purtroppo dobbiamo tutti confrontarci.

Tutto muta nel ventennio (speriamo) appena passato, le parole invertono il loro significato come in un racconto di Orwell ed ecco che raccontare la realtà per quella che è diventa un atto quasi sedizioso: l’informazione si trasforma in controinformazione.

D’altronde lo diceva anche Gramsci la verità è rivoluzionaria”, anche se dubito che il fondatore dell’Unità avesse previsto un epilogo come quello attuale per il giornale da lui creato.

Lo stesso Claudio ci scherza sopra e con non poca ironia ci regala una sua foto in tenuta da black bloc.

Fatto sta che nella fase attuale, come Michael Moore insegna, la documentaristica si conferma il modo migliore per raccontare al meglio le cose raggiungendo il maggior numero di persone possibile.
Per usare le parole di Lazzaro partendo dall’assunto che “il montaggio è la scrittura e il girato è l’assoluto” rimane il fatto che “se si vuole arrivare al cuore del problema devi amare ciò che è diverso da te”.

In poche parole raggiungere gli altri è la chiave per essere credibili, è necessaria un’identificazione con il soggetto osservato, la comprensione delle sue motivazioni, anche se distanti anni luce dalle nostre per renderne a pieno un ritratto il più fedele possibile.

Certo non esprimere un proprio giudizio è quasi impossibile ma spesso non è nemmeno necessario.

Nei suoi documentari Claudio interviene molto di rado e garbatamente, lui definisce questo modo di fare decubertiano, una forma di cavalleria. “d’altronde io ho in mano il montaggio” ci scherza su, “sarebbe poco sportivo se non lasciassi alla controparte la totale libertà di parola nel girato

Oltretutto se messo nelle condizioni di parlare è molto facile che lo stesso soggetto si ponga da solo davanti alle sue contraddizioni: “é molto più efficace se la fossa se la scava lui che non se gliela scavi tu”, mi dice semiserio con uno sguardo sornione appena filtrato dalle sottile lenti dei suoi occhiali tondi.

E chi abbia visto anche uno dei documentari della trilogia finora proposta da Lazzaro non può che convenirne.

Mi rammento di una persona che vedendo l’archetipo leghista del sindaco Gentiloni, nature nel ruolo di se stesso in Camicie verdi (2006) , film sulla dirigenza e sulla militanza padana, mi chiese con le lacrime agli occhi se quel tipo “era vero”.

In effetti, per stessa ammissione del regista in quel caso è stato relativamente facile rendere un quadro d’insieme fedele, perché il bello è che parlando dei “celoduristi” puri tratteggiati dal film, “loro si piacciono così” .

Per il documentario, in particolare con personaggi tipo Borghezio è bastato chiarire fin dall’inizio che la si pensava diversamente e dargli la possibilità di esprimere liberamente quel tipo di personalità che tanto ha presa sull’universo leghista. Poi soffermandosi sull’involontaria gag che l’addetto bibliotecario del centro culturale padano dà di se stesso, si capiscono a pieno le ragioni per cui quel tipo di messaggio  ha tanta presa su un certo pubblico.

Vedendo le sequenze affiancarsi l’una all’altra, verrebbe da dire “a ognuno il suo”…

Ma, nonostante le possibili analogie antropologiche tra il leghista medio e l’australopiteco, il lavoro fila senza eccessivi intoppi  perché in questo caso parliamo di un movimento tutto sommato istituzionalizzato che mira ad una piena legittimazione agli occhi del grande pubblico e una cosa che si conosce tutto sommato è sempre più rassicurante di un’altra più sfuggente ed oscura.

Abbandonande le atmosfere folkloristiche di camice verdi ci proiettiamo in ambienti decisamente più inquietanti con Nazirock (2008), il secondo documentario della trilogia.

Tinte fosche, nere come gli ambienti del neofascimo alternativo Italiano.

Girato perlopiù ad un raduno di “Forza Nuova” a Marta, il documentario si muove soprattutto tra il backstage di un concerto di band che si autodefiniscono di “musica alternativa”, se non direttamente naziskin, i banchetti di merchandaising nazional-socialista, socialista nazionale, patriottico – e tutte gli altri possibili sinonimi per addolcire o non usare chiaramente il termine nazista – e una serie di seminari da contenuto revisionista, quando non apertamente negazionista.

L’ambiente è di sicuro più tetro e meno colorito di quello leghista e di certo chi vi scrive non ha provato nessun moto ilare quando lo ha visto.

Cosciente del fatto che girare un documentario nel modo classico era impossibile, Claudio opta per il basso profilo.

Dopo essersi fatto accreditare, si muove con piccole telecamere e una troupe giovane – e anche un po’ incosciente, ammette.

Il tutto per ridurre l’impatto al minimo senza sembrare invadenti e mimetizzarsi pur non essendo abusivi.

Infatti anche qui per fare un lavoro che ottenga il risultato di andare a fondo, riportando un ritratto della realtà falsato il meno possibile dalle proprie convinzioni, vale la solita regola che Lazzaro si è dato, ossia “amare ciò che è diverso da te” per capirne le intime motivazioni.

Certo gli interlocutori non sono tutti disponibili, vanno dal “politico” in senso stretto, che comunque ha bisogno di mostrarsi ad una telecamera per dire la sua, al militante sui generis, a tratti quasi inconsapevole, certamente non molto informato, fino al fanatico duro e puro da cui puoi aspettarti qualunque tipo di reazione.

Non sono mancati attimi di tensione e lo stesso Claudio ammette di aver avuto paura in un paio di momenti che la situazione degenerasse.

Ma poi rettifica dicendo che più che una coltellata, in Italia è più alto il rischio di una ritorsione legale.

Mi racconta di aver vissuto un’infinita odissea giudiziaria affrontando una causa per diffamazione intentatagli da un’altra organizzazione neofascista di cui non farò il nome, essendo quasi certo che il  mio direttore non aprirà il borsellino per pagarmi un avvocato.

Mi basterà dire che il capo di detta associazione è un orribile ciccione che il sabato sera non trovando niente di più intelligente da fare per divertirsi, è uso prendersi a cinghiate da solo o in compagnia.

Nemmeno Claudio mi incoraggia, dicendomi serio che tutto il travaglio lo ha dovuto affrontare da solo, senza nessun aiuto, perché “ se fai questo tipo di lavoro, sei solo come un cane”.

La vicenda, per la cronaca, si conclude con l’assoluzione del nostro eroe, il che sarebbe anche il minimo, visto che nel pezzo incriminato, l’organizzazione in questione non viene nemmeno nominata.

Ma ovviamente c’è il tempo perso, le trasferte, le udienze, le spese procedurali e a cappello di tutto una bella nota dal sapore kafkiano che dà bene l’idea dello stato di salute della nostra legislazione: nelle motivazioni della sentenza, per qualche oscuro motivo, insondabile ai comuni mortali, lui diventa magicamente il direttore de “L’Europeo”, senza ovviamente esserlo mai stato.

Non si perde in molte polemiche, quello che è stato è stato, e lui mi sembra che sia andato avanti, dritto per la sua strada, però ci tiene a dirmi che “se si volesse garantire un minimo la libertà di informazione, almeno la legge sulla diffamazione a mezzo stampa bisognerebbe proprio cambiarla.”

Arriviamo quindi all’ultimo capitolo che chiude questa prima trilogia: Bandiera viola, un interessante spaccato dell’Italia che non ci sta, che non si rassegna al degrado e che vuole rialzare la testa e lottare per riconquistare una dignità.

Il film è uno spaccato delle rivendicazioni e delle istanze di un vasto segmento popolare, quello che una volta sarebbe stato collocato in quell’area politica radicale che va dal socialismo massimalista al comunismo in tutte le sue declinazioni, ma che in Italia, caso unico in Europa, non ha una rappresentanza istituzionale, grazie soprattutto ai sottili bizantinismi di un PD più impegnato a distruggere gli eventuali concorrenti che a fare uno straccio di opposizione.

L’occasione per analizzare questo composito microcosmo è offerta dal “No-B Day” la manifestazione del cosiddetto popolo viola, la prima del belpaese a essersi autoconvocata spontaneamente, senza il patrocinio di alcun partito o sindacato.

Il corteo e tutta l’organizzazione che c’è dietro costituiscono il filo viola che unisce e racconta le storie e le motivazioni di gente comune, con le loro storie, le loro appartenenze o anche le loro non-appartenenze, le loro profonde diversità, che riesce a superare gli steccati e le non poche difficoltà logistiche per trovarsi in piazza e dire la sua.

Attraverso le voci di questa protesta ci raccontano l’Italia che rifiutano, quella degli ultimi vent’anni e quella che vorrebbero.

Questo film, devo ammetterlo, era l’unico della trilogia che mi mancava, un po’ perché una storia positiva, come in sostanza è quella che il documentario racconta, non ha il “fascino del male” che caratterizza i primi due. Ma soprattutto a monte di questo mio deficit c’è stato un problema di distribuzione, che affligge chiunque abbia l’ardire di trattare (contro) informazione o arti indipendenti in Italia.

Se è già difficile trovare una produzione, la distribuzione diventa uno sforzo epico, visto che in un sistema fortemente irregimentato come il nostro, quando chi tira le fila capisce che non può assimilarti ti fa calare addosso il muro di gomma dell’isolamento.

Oggi Claudio, dopo una lunga convalescenza da una grave malattia, è pronto a tornare in pista, ma solo come autore.

Quello che riguarda le beghe amministrative della produzione è un qualcosa che desidera lasciarsi alle spalle. Tutto il peso delle storture nostrane qualche segno deve lasciarlo per forza e una certa stanchezza è il prezzo che si deve pagare.

Eppure ci sarebbe tanto da dire.

Per usare le parole di Lazzaro “vent’anni di berlusconismo hanno aiutato gli italiani a dare il peggio di sè. Vent’anni in cui si è stati nel sistema sentendosi alternativa” e ancora “ la realtà dei politici italiani è molto al di sopra di un Cetto Laqualunque

Fuori comincia ad imbrunire e pian piano la conversazione vira su argomenti più personali e di opinione, di cui credo possiate fare tranquillamente a meno.

Claudio e la sua compagna, che è anche la sua operatrice, sono degli eccellenti padroni di casa, in grado di parlare diffusamente e con cognizione di causa dei più svariati argomenti. Ma, come al solito, mi rendo conto sempre troppo tardi che il tempo vola e decido di togliere il disturbo, non prima di lasciarmi sfuggire di bocca un’ultima, spontaneissima domanda, diretta a lui, ma che coinvolge tutti quelli che fanno il nostro mestiere in un certo modo.

“A Clà…. ma chi ce lo fa fare?”

La risposta istantanea “ Ce lo fa fare un concetto estetico… chi si riconosce in un senso etico, non si riconosce in questo merdaio”.

Come al solito, fedele al suo stile, il mio interlocutore ha saputo mischiare serietà ed ironia così bene in questa risposta, da renderne il confine impercettibile.

Però mi piace così è non aggiungo altro.

Colonna sonora “Down the memory lane” – Virgin Prunes.

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