Con l’ultimo episodio di questa rubrica arriviamo alle soglie del terzo millennio (e oltre), a quel coacervo di stili e tendenze solitamente racchiuse nell’etichetta di cinema postmoderno, che analizzerò -per ragioni di semplicità descrittiva- nel solo contesto del cinema di produzione statunitense, chiarendo sin da subito però che quanto segue non si propone affatto come un catalogo esauriente di nomi e titoli del grande cinema contemporaneo (che per ovvie ragioni viene realizzato anche -e anzi soprattutto- fuori dai confini americani).
Per orientarci in un percorso di analisi così estremamente frastagliato ed eterogeneo, occorrerà prima di tutto illustrare brevemente l’ambito teorico riguardante la postmodernitàtout court, impresa tutt’altro che semplice data la mancanza di una definizione onnicomprensiva che possa delimitarla, l’assenza di marche temporali rigorose e il mare di posizioni critiche antitetiche che da un lato rigettano totalmente l’idea dell’esistenza di un “periodo”o “stile” postmoderno e dall’altro rivendicano quello stesso concetto come uno status culturale proprio della contemporaneità, nato da una rottura totale col passato. Il postmodernismo si manifesta, in sintesi, come un nodo teorico controverso, sfaccettato e fin troppo abusato, da cui è difficile isolare dati oggettivi.
Letteralmente il termine “postmoderno” sta ad indicare un senso di posteriorità nei confronti del moderno e quindi del passato. Proprio partendo da questo concetto, Gianni Canova e Fredric Jameson sono giunti a valutare la postmodernità soprattutto come un atto distruttivo di ciò che è stato e perciò come una dominante culturale contemporanea rivolta al sovvertimento della forma moderna e alla presa di coscienza della fine di un’era dominata socialmente da rigore e razionalità e artisticamente dai grandi racconti e dalla grande Storia. Decisamente calzanti a questo proposito, le parole della studiosa Isabel Cristina Pinedo che la postmodernità come “an unstable one in which traditional (dichotomous) categories break down […], institutions fall into question, Enlightment narratives collapse, the inevitability of progress crumbles, and the master status of the universal (male, white, monied, heterosexual) subject deteriorates”.
Dunque, in estrema sintesi, se il pensiero modernista, di cui sono espressione ad esempio le correnti del realismo e del positivismo, si fondava sui concetti di sistematicità ordinata, interezza, oggettività, razionalità e progresso; il postmodernismo, che ad esso si contrappone, si configura come un panorama sfaccettato e multiprospettico basato sugli antitetici caratteri di mutevolezza, eclettismo, relativismo, soggettivismo, polidimensionalità e nichilismo pessimistico. Tutti questi caratteri di rottura riflettono il nuovo orientamento che le società globalizzate del mondo occidentale assumono a partire dagli anni ’60 e in particolare l’influenza, a dir poco prolifica, che la crescita incontrollata dei media (dalla televisione agli odierni I-Phone) ha avuto su questa trasformazione. La proliferazione tecnologica di schermi, infatti, dà vita non solo alle realtà simulazionali e virtuali “da social-network” ma anche all’ansia di apparire, alla mercificazione del corpo e alla spettacolarizzazione delle merci, in parole povere a quella realtà-simulacro descritta da Jean Baudrillard e intesa come “significante privo di significato”. Se a tutto questo aggiungiamo i limiti alla conoscenza umana posti dalle nuove scoperte scientifiche, è facile comprendere il generalizzato disorientamento dell’uomo contemporaneo e dunque l’impossibilità di perseguire la tendenza propria del positivismo ottocentesco di concepire una realtà oggettiva, univoca e solida. Il postmodernismo, in pratica, ha ormai a che fare con un mondo non conoscibile in modo definitivo, pieno com’è di rappresentazioni di secondo livello, immagini di immagini, vite artificiali. Da ciò seguono quei caratteri di perdita di interezza, frammentazione e soggettività che lo contraddistinguono, che impregnano ovviamente anche le manifestazioni artistiche odierne: dall’architettura al teatro, dalla letteratura al cinema.
Oientativamente, si comincia a parlare di cinema postmoderno più o meno con venti anni di ritardo rispetto alla letteratura, nel nido della quale l’etichetta sorge già negli anni ’60 in seguito alla pubblicazione di Comma 22 di Joseph Heller, The Sot-Weed Factor di John Barth e V. di Thomas Pynchon, forse il massimo esponente della postmodernità letteraria, espressa in modo mirabile nel suo capolavoro L’arcobaleno della gravità (1973).
C’era una volta in America (Once upon a time in America), Sergio Leone (1984)
I primi veri sintomi di un cambiamento in ambito cinematografico compaiono nei primi anni ’80 con film come Blow oute Omicidio a luci rosse, entrambi firmati da Brian De Palma. Si tratta di pellicole fondate su un tentativo quasi ludico di mettere in scena la finzione che soggiace al meccanismo cinematografico, di thriller innervati di un apparato citante apertamente sbandierato (Omicidio a luci rosseè un omaggio palese al cinema di Hitchcock come Blow out lo è sin dal titolo al Blow up di Antonioni) che sostituisce alla natura “sacrale” della fonte citata un gusto beffardo per il gioco, per il divertimento, una sorta di attitudine a non prendersi sul serio.
È comunque nel 1984, con l’uscita dell’ultimo incommensurabile capolavoro di Sergio Leone, C’era una volta in America, che si assiste una rottura forte e decisiva. Se Quarto potere si costituiva come una sorta di rampa di lancio per il fermento innovante che porterà alle nouvelles vagues del cinema moderno (opposto al cinema classico), C’era una volta in America per la prima volta pare dar vita a una summa dei caratteri più caratterizzanti della postmodernità, facendo scuola a un numero sterminato di autori contemporanei. Come abbiamo avuto modo di notare il noto gangster-movie di Leone, nel raccontare una storia di amicizia e tradimento, di amore e piombo, di redenzione e morte opta per una struttura narrativa complessa, labirintica, enigmatica, caratterizzata da una confuso frammentazione spazio-temporale che tocca il suo apice nel tanto dibattuto finale. Com’è noto (chi non ha visto il film è invitato a saltare a piè pari quanto segue) la pellicola si chiude con un ambiguo ritorno a una delle scene iniziali: Noodles dopo aver visto i cadaveri degli amici si ritira nel teatro delle ombre cinese e fuma dell’oppio. L’inquadratura finale, con la macchina da presa che lo riprende dall’alto, sdraiato, e arriva fino al primo piano, lo mostra prima decisamente stordito, finché il suo volto non si scioglie in una risata liberatoria. Facile credere che tutta la vicenda messa in scena sia dunque il risultato di una fusione tra un sogno allucinato di Noodles stordito dall’oppio e le sue memorie di gioventù. E altrettanto facile rifiutare di crederlo, elencando tutti gli elementi che confuterebbero una simile teoria. Leone non offre nessuna possibilità di soluzione e preferisce lasciare aperti tutti gli interrogativi, senza risolverli. Un’operazione programmatica che pare riflettere in modo evidente l’ odierna impossibilità di comprendere la complessità del reale attraverso un unico discorso conoscitivo, insomma a quella che Jean-François Lyotard -uno dei massimi teorici della condizione postmoderna- chiama “la fine delle grandi narrazioni”.
Mulholland Drive (id.), David Lynch (2001)
In questo senso il cinema sembra attivare numerose dinamiche testuali e narrative per riflettere attraverso le immagini e i suoni, l’avvenuta dispersione di un senso univoco nel reale. Di fronte a un mondo fatto di attimi disgiunti, slegati, sempre appartenenti a diversi ordini di realtà (umana, artificiale, virtuale) la narrazione cinematografica postmoderna assume come principio basilare il tracollo della causalità -elemento collante del cinema classico e moderno, nel quale al massimo essa si sfibrava senza mai svanire del tutto- sostituita da forme di organizzazione che riflettono invece le modalità di orientamento delle nostre società contemporanee, fondate ormai sui sistemi informatici e sulla forma che principalmente li caratterizza: il database, un deposito virtuale in cui vengono accatastati elementi sempre diversi non secondo legami logico-causali bensì attraverso il “metodo” (a-logico) dell’accumulo indifferenziato. Un sistema del genere non può che allontanarsi dai concetti positivisti di interezza e sistematicità e, al contrario, accogliere quelli postmoderni di mescolanza, frammentazione e rifiuto della gerarchia, della teleologia e della linearità.
L’elemento più facilmente ravvisabile all’interno dei film postmoderni è proprio quello della frammentazione, che poi è strettamente connesso alla perdita di linearità. Il tempo narrativo risulta decisamente problematizzato, spezzato in frammenti più o meno rilevanti. La connessione di questi brandelli di una narrazione esplosa, che obbliga lo spettatore a risvegliare la propria capacità interpretativa per saturare le lacune non mostrate, non segue sempre un’ordine logico o cronologico. Immagini del presente, flashback, flashforward, pensieri, idee, sogni, inserti totalmente estranei al normale flusso del discorso si susseguono in modo accumulativo, poiché il regista non si cura più di dare un senso lineare e consequenziale a ciò che mostra e presenta dunque segmenti slegati, isolati o riconducibili a un piano narrativo compiuto solo a posteriori secondo una strategia senza dubbio già utilizzata da molto precedente cinema d’autore ma che oggi si carica di suggestioni differenti, sempre più legate alla progressiva perdita della possibilità di leggere il reale secondo un criterio univoco, a quella heideggerriana concezione di mondo come “immagine” o a quella nietzschiana di “realtà” come “favola” o “simulacro”.
Proprio su questa strategia si fondano capolavori del calibro di Mulholland Dr. o -ancor più radicalmente- INLAND EMPIRE in cui David Lynch porta ad un vertice estremo la propria riflessione sull’infinitizzazione delle forme del reale, o, come sostiene Paolo Bertetto, sulla sostituzione del concetto positivistico di “essere come presenza” a quello ben più radicato nella contemporaneità di “essere come potenzialità” in cui la dimensione che tutti noi tentiamo oggettivamente di etichettare come “reale” si costituisce solo una delle possibili forme dell’esistenza, specie nell’era in cui il virtuale ha moltiplicato in modo esponenziale i “modi dell’essere al mondo”.
Io non sono qui (I’m not there), Todd Haynes (2007)
Su binari in qualche modo simili si muove il misconosciuto e sottostimato Io non sono qui di Todd Haynes (che sarebbe il caso di analizzare in modo congiunto insieme al recente capolavoro del francese Leos Carax Holy Motors). Il film si propone come una -non ufficiale- biografia del celebre cantautore Bob Dylan ma esplora l’esistenza dell’icona musicale statunitense in modo estremamente singolare: le fasi della vita del poliedrico artista vengono ripercorse attraverso sei differenti personaggi, sei narrazioni alternate ma prive di reali soluzioni di continuità, all’interno di un caleidoscopio esplosivo, delirante e magico, un flusso musicale debordante di citazioni cinefile (prima fra tutte quella all’8½ felliniano) che oltrepassa le frontiere della razza (uno dei personaggi deputati a rappresentare Dylan è un bambino di colore, immerso in un’esistenza errabonda che richiama le fantomatiche avventurose biografie che lo stesso cantante creò per circondarsi di un’aura leggendaria), del gender (in uno dei frammenti che compone il film, il portavoce di Dylan è l’androgina rock star Jude Quinn, interpretata da una donna, Cate Blanchett) e dei generi (dalla love story si passa al film in bianconero in stile Fellini, fino a giungere al western dominato dalla figura di un invecchiato Billy the Kid, riferimento alla partecipazione di Dylan al noto film di Peckinpah). Più che un tentativo di rinnovare le potenzialità di quel (sotto)genere costituito dal biopic, Haynes realizza con Io non sono qui una riflessione quanto mai lucida sul concetto di individualità ai tempi del web 2.0 ovvero nell’era della moltiplicazione infinita delle possibilità di essere in modo diverso, della proliferazione delle identità individuali e delle esistenze potenziali aperta da quell’interzona trans-culturale, trans-razziale e trans-gender in perenne espansione costituita dal virtuale.
Le iene (Reservoir dogs), Quentin Tarantino (1992)
Sempre su una linea d’azione improntata alla frammentazione temporale si muovono poi i primi tre film di Alejandro Gonzales Iñárritu che in particolare in 21 grammi sembra pescare a caso da una botola frammenti di tre storie separate realizzando un collage di esistenze confuso e suggestivo e molti di quelli di Quentin Tarantino (dal caos claustrofobico de Le ienea quello trans-culturale di Kill Bill passando per il frullato pop di Pulp Fiction) che uniscono a questo spezzettamento acronologico, una tensione ludica irrefrenabile che comporta una strutturante mescolanza tra livelli di cultura antitetici e una pratica quasi feticista orientata alla citazione indifferenziata. Il crollo della linearità consequenziale conduce spesso e volentieri a strutture narrative volutamente atipiche, come quella circolare di Strade perdute o de L’esercito delle dodici scimmie, quelle ambiguamente sospese tra sogno, veglia e ricordo di film come Se mi lasci ti cancello, Il ladro di orchidee, del tuttora inedito in Italia Synecdoche, New York o del cult Fight Club, quella che -genialmente- alterna la vita del protagonista scrittore con le proiezioni pirandelliane dei suoi romanzi di Harry a pezzio quella totalmente rovesciata di Memento.
In questi universi filmici frammentati, inoltre, spesso scompaiono totalmente anche dei precisi scopi o obbiettivi della narrazione. Il classico finale catartico viene sostituito da un finale aperto o addirittura viene del tutto eliminato, lasciando spazio a un “non-finale” che non coincide con il termine del momento della fruizione. E’ il caso di alcuni film di Sofia Coppola (Lost in translationo Somewhere) in cui tale assenza di un termine ultimo riflette l’odierno crollo di valori forti, suggerito anche da narrazioni spesso appiattite, in cui ogni frammento, in un sistema privo di gerarchie, ha lo stesso peso del successivo e l’introspezione psicologica si riduce progressivamente fino a trasformare i personaggi in macchiette di colore (paradigmatica di questa operazione è l’opera di Tarantino). Manca la profondità, soppiantata da una sorta di pessimismo esistenziale, dal nichilismo e dalla stanchezza di un narrato che sembra procedere per inerzia o per puro caso come in alcuni film dei fratelli Coen: dal cult Il grande Lebowski agli straordinari quanto sottostimati Fratello dove sei? o Burn after reading.
I segreti di Brokeback Mountain (Brokeback Mountain), Ang Lee (2005)
Alla scomparsa della profondità si lega spesso l’avvento di una tensione carnevalesca, tutta tesa alla rappresentazione ironica, all’assurdo, alla volontà di negare, sconvolgendolo dall’interno, qualsiasi tipo di ordine precostituito. Riconducibile poi a questa esigenza di distruzione è la tendenza, ancora postmoderna, alla revisione dei generi e sotto-generi narrativi, realizzata attraverso l’artificio di mostrare apertamente le loro convenzioni per minarle dall’interno o metterle in ridicolo. Si pensi a quel mirabile esempio di western crepuscolare caratterizzato da Gli spietati di Clint Eastwood, fatto di donne che si fanno mandanti di un omicidio e cowboy che piangono disperati dopo un assassinio, a Quei bravi ragazzi, un atipico ed epocale gangster-movie che, pur mantenendo la violenza iperrealista tipica di Scorsese e del genere, si trasforma in un affresco antropologico che offre più attenzione alle tradizioni familiari dei boss mafiosi che non agli efferati omicidi o a quel magnifico esperimento di rilettura contemporanea del melodramma compiuto da Todd Haynes con Lontano dal paradiso, in cui i motivi di Douglas Sirk -classico maestro del genere- vengono ripresi in modo critico, svincolati da quella necessità di censura che il cinema statunitense imponeva all’epoca ed esposti nella loro cruda datità.
Impossibile, in tema di revisionismo, non citare inoltre un film come I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee, etichettato sin dall’uscita in modo improprio come la storia d’amore omosessuale tra due cowboy, nata sulle montagne del Big Horn e capace di proseguire, celata ai più, nel corso degli anni. Innanzitutto, il film del regista taiwanese si propone come uno dei rari prodotti cinematografici realmente capaci di fare dell’omosessualità una vera e propria forma del testo e non un mero oggetto-contenuto, accostandosi idealmente in questo senso a quel Querelle de Brest di Fassbinder (già trattato nel decimo episodio) che pure tanto ne è distante a livello narrativo. L’amore “contro natura” (termine che -specifico per evitare qualsiasi tipo di controversia- utilizzo in modo assolutamente non discriminante) che del film è tema giunge a plasmare l’intera forma testuale. Come in Fassbinder “l’eccesso del corpo” di Querelle finiva per decostruire la realtà diegetica, tramutandola in un teatro di cartapesta con tanto di sole finto, in Brokeback Mountain la forza prepotente del sentimento che lega i due uomini (la tagline all’epoca dell’uscita del film era inaspettatamente adatta a descriverne anche l’apparato formale: “L’amore è una forza della natura”) giunge a forzare drasticamente i limiti dei generi di cui il film si compone. In primo luogo: il western. Del genere americano per eccellenza Lee non salva che la natura incontaminata e selvaggia dei monti del Big Horn, stupendamente fotografata da Rodrigo Prieto, resa nei modi di un microcosmo a sé stante, un “luogo sospeso al di sopra delle cose di tutti i giorni” (tanto per citare lo splendido omonimo racconto di Annie Proulx da cui il film è tratto) ed estraneo allo scorrere del tempo, un non-luogo in cui l’amicizia virile così tipica del western può finalmente sfociare nella sublimazione fisica tante volte solo vagheggiata da Ford e Hawks e ora mostrata in tutto il suo potere dirompente, senza la necessità di aggirare una soffocante censura. Nelle mani di Ang Lee Brokeback Mountain si trasforma nell’ultimo western possibile, definitivamente spogliato dai tratti costituitivi di un genere ormai dirottato verso il viale del tramonto. Non è un caso che nella prima parte della pellicola prima Ennis compaia nell’atto di detergersi il corpo totalmente nudo con il solo cappello indosso, poi Jack -nella mattina che segue alla prima unione- venga ripreso vestito dei soli stivali, intento a lavare i propri vestiti sulla riva di un fiume. Cappello e stivali, metonimici richiami a un genere che non c’è più. E l’elemento dell’acqua, elemento simbolo di rinnovamento, strumento attraverso cui sciacquare via le minacciose sclerosi della tradizione.
E a ben guardare, l’altro grande genere che Brokeback Mountain tenta di decostruire è il cosiddetto romance, il melodramma romantico. In alcuni rapidi e coincisi scambi di battute tra i due protagonisti (il più esemplare è il primo scambiato dopo il rapporto sessuale: “Io non sono così!” / “Nemmeno io!” che ricalca la prosa cruda e scarna della Proulx in cui suonava invece come: “Mica sono un finocchio”/ “Neanch’io, mai capitato prima. Riguarda solo noi!”) pare evidente l’esigenza di superare la dicotomia universale uomo-donna per dare rappresentazione di un sentimento non necessariamente omosessuale ma asessuato, svincolato cioè non dal sesso ma dalla connotazione di genere (maschio o femmina), in cui il rapporto fisico è la sublimazione di un contatto quintessenziale tra due essenze e capace in tal senso di esprimere “the greatness of love itself” (queste le parole utilizzate dallo stesso Ang Lee in occasione della consegna dell’Oscar alla regia) , un amore svincolato cioè dalle classiche categorie oppositive, il cui superamento secondo l’affermazione sopra riportata Isabel Cristina Pinedo costituirebbe uno dei caratteri più rilevanti del guado dal moderno al postmoderno.
Chi ha incastrato Roger Rabbit (Who framed Roger Rabbit), Robert Zemeckis (1988)
Un altro carattere dominante del cinema contemporaneo solitamente definito “postmoderno” è, infine, quello della mescolanza: il melange barocco tra forme, linguaggi, immagini che tanto caratterizza ad esempio l’opera di autori come Terry Gilliam, Baz Luhrmann e ancora Quentin Tarantino in cui colto e kitsch, cultura alta e spazzatura pop giungono a una fusione priva di scorie. Qui si coglie forse in modo più netto l’assonanza tra le sopracitate strutture-database caratterizzanti i nostri sistemi informatici e le forme del cinema contemporaneo. Nel momento in cui le nostre strutture di pensiero tendono ad assimilare in modo sempre più netto le logiche del computer -tese a mescolare dati diversissimi in una condizione di prossimità relativa- le forme artistiche si comporteranno di conseguenza, facendo della mescolanza indifferenziata di stili e contenuti il modo di esistere dell’intero testo. Così nel suo La leggenda del Re Pescatore Gilliam fa convivere armoniosamente il Medioevo con la New York verticalizzata, il Sacro Graal con le vasche a idromassaggio, i cavalieri crociati con i disk-jockey radiofonici mentre Tarantino in Kill Bill si permette di mescolare il bianconero con il colore e i personaggi in carne ed ossa con l’animazione, già messi in vera e propria interazione nel magistrale Chi ha incastrato Roger Rabbit di Robert Zemeckis.
Essendo fondato su tale pastiche, inoltre, il cinema postmoderno non può non annoverare tra i suoi elementi peculiari quello della citazione. Essa agisce, spesso in modo anonimo per lo spettatore medio, a tutti i livelli della narrazione (di nuovo il cinema di costituisce un esempio lampante) e chiama in causa elementi e testi della cultura passata senza gerarchie di provenienza. Il citazionismo postmoderno riprende elementi dal cinema stesso come dalla letteratura, dalla pittura e dal videoclip, dalle pubblicità e dalla televisione, fino ad affondare nei più infimi sottoprodotti della società capitalistica (e non solo). Questa tendenza alla citazione ibrida e frammentaria, sciolta da ogni gesto critico, trasforma inoltre l’opera d’arte postmoderna in un museo, un inventario dove tutto il passato si rifà presente, omogeneizzandosi. Un passato presentificato e riciclabile dove Godard può trovarsi in mezzo a una battaglia di cappa e spada (si pensi di nuovo al dittico Kill Bill di Quentin Tarantino), i dipinti di Bosch possono incontrare l’Alice di Lewis Carroll (ciò che accade nell’opera di un autore come Gilliam) e il racconto corale alla Altman può arrivare ad accogliere surreali e inspiegabili piogge di rane (il caso di Magnolia di Paul Thomas Anderson).
Prima di chiudere, mi preme ricordare di nuovo quanto l’ambito teorico del postmoderno sia incredibilmente ampio e quanto dunque questo articolo non costituisca che un accenno, o meglio un primo approccio -peraltro estremamente superficiale- a un argomento così denso di suggestioni.
Mi permetto, inoltre, di ringraziare tutti coloro che hanno supportato il mio lavoro seguendo questa rubrica. E spero con tutto il cuore che i piccoli squarci di settima arte che di volta in volta ho cercato di descrivere abbiano costituito per i cinefili uno strumento di riflessione utile oltre che un modo alternativo per riaffondare in nomi e titoli già conosciuti e amati e per i curiosi che proprio di recente hanno scoperto questa passione, un utile trampolino -traballante e incerto senz’altro- per tuffarsi in quell’immenso mare di immagini, voci, parole, suoni ed emozioni che è il cinema.
Un abbraccio caloroso a tutti. E a presto.
Stefano Oddi
FILMOGRAFIA PARZIALE
A causa dell’impossibilità di tracciare una definizione univoca di un vero e proprio stile postmoderno, la lista di nomi che segue va intesa più come un orizzonte di ricerca che come un catalogo esauriente. Tale lista comprende solo cineasti americani (o che hanno lavorato in USA), tralasciando dunque volontariamente -operazione in linea con la natura dell’intero articolo- nomi europei e orientali storicamente riconducibili al cinema postmoderno e non meno determinanti di quelli qui citati (John Woo, Park Chan-wook, Wong Kar-Wai, Leos Carax, Emir Kusturica, Lars von Trier e almeno una parte dell’opera di autori come Michael Haneke, Pedro Almodovar o i fratelli Dardenne…). Tra i nomi citati inoltre alcuni meriterebbero un capitolo a sé di questa rubrica per indagare sulla complessità di opere sempre in bilico tra classicità e postmodernismo (Clint Eastwood, i Coen, Martin Scorsese o James Gray su tutti).
BRIAN DE PALMA
http://www.imdb.com/name/nm0000361/?ref_=nv_sr_1#director
QUENTIN TARANTINO
http://www.imdb.com/name/nm0000233/?ref_=nv_sr_1#director
PAUL THOMAS ANDERSON
http://www.imdb.com/name/nm0000759/#director
JOEL ED ETHAN COEN
http://www.imdb.com/name/nm0001054/?ref_=nv_sr_1#director
DAVID FINCHER
http://www.imdb.com/name/nm0000399/?ref_=nv_sr_1#director
BAZ LUHRMANN
http://www.imdb.com/name/nm0525303/?ref_=nv_sr_1#director
TODD HAYNES
http://www.imdb.com/name/nm0001331/?ref_=nv_sr_2#director
DAVID LYNCH
http://www.imdb.com/name/nm0000186/?ref_=nv_sr_2#director
TERRY GILLIAM
http://www.imdb.com/name/nm0000416/?ref_=nv_sr_1#director
SOFIA COPPOLA
http://www.imdb.com/name/nm0001068/?ref_=nv_sr_1#director
MARTIN SCORSESE
http://www.imdb.com/name/nm0000217/?ref_=nv_sr_1#director
CLINT EASTWOOD
http://www.imdb.com/name/nm0000142/?ref_=nv_sr_1#director
SPIKE JONZE
http://www.imdb.com/name/nm0005069/#director
CHARLIE KAUFMAN
http://www.imdb.com/name/nm0442109/?ref_=nv_sr_1#director
JAMES GRAY
http://www.imdb.com/name/nm0336695/?ref_=nv_sr_1#director
STEVEN SODERBERGH
http://www.imdb.com/name/nm0001752/?ref_=nv_sr_1#director
ROBERT ZEMECKIS
http://www.imdb.com/name/nm0000709/?ref_=nv_sr_1#director
WOODY ALLEN
http://www.imdb.com/name/nm0000095/?ref_=nv_sr_1#director
CHRISTOPHER NOLAN (Inghilterra)
http://www.imdb.com/name/nm0634240/?ref_=nv_sr_1#director
ANG LEE (Taiwan)
http://www.imdb.com/name/nm0000487/?ref_=nv_sr_1#director
PAUL VERHOEVEN (Olanda)
http://www.imdb.com/name/nm0000682/?ref_=nv_sr_1#director
DAVID CRONENBERG (Canada)
http://www.imdb.com/name/nm0000343/?ref_=nv_sr_1#director
ALEJANDRO GONZALES IÑARRITU (Messico)
http://www.imdb.com/name/nm0327944/?ref_=nv_sr_1#director
MICHEL GONDRY (Francia)
http://www.imdb.com/name/nm0327273/?ref_=nv_sr_1#director