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“La ricostruzione” di Lucian Pintilie

Il cinema dei margini da riscoprire. Rubrica a cura di Beniamino Biondi…

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Ancora per tutti gli anni ’60 il cinema romeno era ampiamente demodulato tanto nelle scelte stilistiche quanto nei processi di una originale ideazione narrativa. La crescita cinematografica, quantomeno nel senso di una coscienza liberata del proprio dire e dei rapporti dialettici tra arte e socialità, avvenne più oltre per effetto del condizionamento abbondantemente determinato da quel fenomeno di lentissimo disgelo che ha in qualche modo limitato il controllo totale della gerarchia burocratica sui modi dell’espressione cinematografica del paese.

Pure in queste condizioni, i cineasti hanno saputo comporsi in un margine di azione autentica che ha prodotto opere estremamente interessanti e, in alcuni casi, compiute proprio entro le ragioni di una specifica appartenenza geoculturale. Lucian Pintilie è l’autore che più si sottrae agli adescamenti della complicità ideologica con il regime; quantunque isolato e posto ai margini da una cultura d’apparato grigiamente ufficiale, fino poi all’esilio, Pintilie ha assunto un’autorevolezza intellettuale sapientemente congiunta al ruolo simbolico che la sua stessa opera ha prodotto. Pintilie esordisce coltivando interessi prevalentemente teatrali sui palcoscenici di Bucarest, dove metterà in scena opere del romeno Ion Luca Caragiale e di altri drammaturghi europei contemporanei con spirito acre e modi di effettivo e non compiaciuto sperimentalismo. Il suo primo lungometraggio giunge nel 1965 con Domenica alle sei, opera che seppe rappresentare un atto isolato di rottura per via della sua statura linguistica alternata tra attitudine fenomenologica e rovesciamento onirico, con amplissime influenze sulla concezione strutturale di cineasti inquietamente raffinati come Resnais o Antonioni. Soprattutto Pintilie muta i criteri di descrizione narrativa attraverso un’originale soggettivizzazione dello sguardo della macchina da presa che rinuncia al tracciato di mera registrazione naturalistica in favore di una sua effettiva partecipazione al racconto; il linguaggio, insomma, diviene stile, luogo di ricapitolazione estetica di quei principi che Pintilie ha propri come demitizzanti l’anonimo realismo del cinema di regime. Domenica alle sei prepara il secondo film di Pintilie, e lo prepara nella misura in cui gli artifici formali e gli istituti stilistici dell’avanguardia europea saranno resi impliciti dalla struttura meditatamente sottrattiva del nuovo racconto per immagini. La ricostruzione (1968), dalla novella omonima di Horia Pătreşcu, è la storia di due giovani studenti, Ripu e Vujca, che una notte hanno festeggiato la loro promozione bevendo qualche bicchiere di troppo. Ubriachi hanno aggredito il gestore del bar, fracassato una vetrina e fatto a pugni tra di loro. Qualche giorno dopo vengono riportati sul luogo del reato da un poliziotto, un magistrato, un insegnante e una troupe cinematografica. Il giudice ha deciso che al posto della prigione, i ragazzi dovranno fare gli attori per un documentario pagato dallo Stato contro l’alcolismo. Devono ricostruire fedelmente gli eventi di quella giornata, dalla rissa con il gestore fino allo scontro finale. Quello che non era accaduto nella realtà avviene tragicamente nella finzione. Fin dalla sinossi delle sue azioni narrative, il film di Pintilie appare come un’opera allegorica che consente una complessa stratigrafia ermeneutica sulla struttura manifestamente significante del metafilm strutturato nel rispetto delle unità aristoteliche.

Come è stato scritto, “la irripetibilità dell’esperienza, la vanità del pedagogismo repressivo, la vacuità del mimetismo didascalico fondato sul “tipico”, la inautenticità della riproduzione meccanica del reale, la distruttività di ogni “ricostruzione” che nasca da una visione schematica dei “fatti” (anzi, appunto, dalla riduzione a meri fatti non più immersi nella vischiosità dell’esistenza) sono altrettanti – o meglio appena alcuni – dei motivi che si rincorrono, si intersecano, si sovrappongono, si illuminano, reciprocamente e dialetticamente, di chiaroscurate prospettive (…) scambiando i colposi con i colpevoli, la finzione con la realtà, il volontarismo pedagogico con l’intenzione delittuosa, il dolore autentico con l’artificio”. Con ogni probabilità Pintilie realizza in tempi di dittatura il film più libero e significativo dell’intera cinematografia romena. Il principio iperrealistico della mera ricostruzione costituisce, di fatto, nel rovesciamento dei suoi paradigmi, una critica serrata al regime comunista; di più, esso perviene all’esito paradossale di restituire la pellicola non al mimetismo ma alla visionarietà. Come documento, il film ha un valore simbolico proprio nella misura in cui utilizza la metafora come strumento inalienabile della contestazione politica; per via indiretta, intrecciando il senso di realtà con la sur-realtà dell’esperimento, Pintilie concepisce una parabola sul significato della libertà come principio di responsabilità, eluso in questo senso sia dalla grassa borghesia capitalista che dal rozzo comunismo di regime. Inutile dire che la controversia giunge, di fatto, alla negazione dell’estetica del socialismo reale (lo zdanovismo, per intenderci) attraverso la dissacrazione del soggetto del film didattico.

A nostro parere, piuttosto, l’opera di Pintilie si inserisce nella dialettica del comunismo reale (dialettica negata, certo, ma in fondo modello di autentica libertà) per quel socialismo dal volto umano cui ambiscono in quegli anni i paesi dell’est. L’esigenza e insieme il precipitato della dialettica politica del film è indubitabile persino in considerazione delle scelte stilistiche di Pintilie (un pervicace ossimoro filmico) e soprattutto del suo tracciato metafilmico che si rovescia e sovrappone alla critica ideologica; così come ha scritto Gianni Toti, per cui “(…) Alla fine, che cosa c’è di veramente cinematografico e di autenticamente socialista in un film come questo di Pintilie, se non la denuncia cinematografica della illusione di una “ricostruzione” della verità che sia soltanto cinematografica, culturale cioè, e non vada al di là di questa stessa denuncia di crisi conoscitiva che è anche crisi politica, etc.?”. Così Pintilie nutre la sua parabola grottesca nell’intuizione prodromica dell’entropia e, come per Cechov o Caragiale, nella tragedia della mediocrità, nella noia dell’abitudine, nella corrosione del tempo dell’esistenza è il tramonto doloroso della storia.

Beniamino Biondi

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