“Ottimismo democratico, ottimismo democratico, ottimismo democratico…”. Queste battute, scandite come un ghigno trattenuto, un lamento, sputate fuori più e più volte da Antonio Rezza alla stregua di un loop ingerito, autoindotto, dentro Il piantone (1994), uno dei corti creati con Flavia Mastrella, un pezzo dell’universo mentale e fisico di due autori unici e necessari, indispensabile nella scoperta e nella conoscenza del loro percorso teatrale-cinematografico-artistico-letterario.
Antonio Rezza e Flavia Mastrella incarnano il prototipo puro ed assoluto di anarchia ed indipendenza. A partire dal 1987, anno del loro incontro e dell’avvio del sodalizio artistico tra i due, le rispettive tensioni si fondono in un novus che, sia per il teatro che nel cinema, sferza, a chi vi è sottoposto (critica e pubblico), un colpo di reni capace di sollecitare ed attivare molteplici canali percettivi, sotto la lente della destabilizzazione: visiva innanzitutto, e quasi simultaneamente, mentale, di senso, di significato.
Attraverso scarni mezzi ed oggetti-soggetti: il borgo medioevale di Calcata, il castello Sangallo e i ‘non-spazi’ della Divina Provvidenza di Nettuno e delle proprie abitazioni; il lungomare di Anzio; il corpo e la voce di Rezza; la materia e la forma degli attori non professionisti; l’asincronia di suono, voce, movimento; i dialoghi-battute ironico-paradossali; il bianco e nero della fotografia; gli squilibri del punto macchina; la staticità-dinamismo di una macchina da presa che ingloba ed esclude, espande e riduce, mostra e nasconde, vengono generati un mondo ed una narrazione a-temporale e a-spaziale, pre-veggenti di uno status ancora primordiale, ancora. Nonostante la civiltà, nonostante la tecnologia, nonostante le evoluzioni socio-politiche, l’essere umano è prigioniero di una ‘caduta sulla terra’ in cui è ancora solo, nudo, pieno di dolore ed egoismo. Il fallimento dell’essere umano è totalizzante-totalitario. A partire dai sentimenti, che Rezza e Mastrella dipanano senza concederci alcun alibi.
In Deborah (tratto da Suppietij – 1991), Antonio Rezza, nei quattro personaggi che ci rende, plasmandoli in plastiche caratterizzazioni dove ogni elemento è ironicamente deformato ed esasperato, a cominciare dalla mimica del volto e della voce, assistiamo all’egoismo di tre individui che si servono della innocente e sfortunata Deborah per gettarle addosso tutte le proprie insoddisfazioni sentimentali e relazionali, senza comprendere minimamente il dolore della propria confidente, incapace di crearsi una vita privata. Nessuno dei tre sarà in grado di ‘vedere’ l’estremo e disperato gesto di una donna che è stata la depositaria dei loro più intimi pensieri e sentimenti.
Discorso identico per Fiorenzo (1995), nel quale, l’unico e plurimo Rezza ci mostra, nell’ironico e feroce scambio di battute dei protagonisti della vicenda, il modo in cui vengono emarginati ed esorcizzati il dolore e la sofferenza fisica, nell’isolamento inflitto a Fiorenzo (il soggetto di tutta la discussione), improvvisamente ammalatosi e man mano aggravatosi, nei confronti del quale l’unica preoccupazione è quella di bandire pubblicamente il suo status attraverso il passaparola, elevando la malattia a colpa sociale, punita nel trovare mille alibi al recargli visita, fino all’arrivo della morte.
Sotto la sfera politico-sociale nel De civitate rei (1994) viene impiantata (con l’ingresso nell’inquadratura anche di Flavia Mastrella) una ‘saga familiare’ sviluppata attorno al rapporto tra potere e verità. Una scoperta informatica diviene l’elemento scatenante dell’avidità latente di Gervasio-Rezza che, dapprima custode, autoritariamente se ne appropria, costruendo attorno all’indebito furto il suo ‘impero economico’. L’ansia e la sete di verità di Torella-Mastrella, vittima della sottrazione, viene spenta anche dalla giustizia, schiacciata dalle manie di protagonismo-narcisismo del suo legale. Sarà la sfortuna celeste a rendere giustizia alla donna, per mano dello stesso sangue di Gervasio, il suo primogenito, schiacciato da un risveglio di coscienza improvviso e totalizzante. Un finale che, dalla tragedia impianta un seme di speranza in un’umanità diversa, finalmente non più cieca sotto il peso di pulsioni egoiste ed individualiste.
Speranza ancora troppo labile, rispedita al mittente nel poetico e visionario Il piantone. In un eden-inferno tutto terreno, anime vaganti piangono dentro un pessimismo cosmico che è divenuto status politico-esistenziale. L’arrivo di un inquietante ottimista (paradossale nella sua risata incrollabile, non destituita dal suo volto neppure dalle scariche elettriche di un carrello della spesa-sedia della morte) pare portare un rinnovamento spirituale negli erranti, che ne subiscono il fascino, eleggendolo a nuovo leader. Ma i due osservatori esterni (Rezza e il ‘mitico’ Armando) riporteranno il caos quotidiano, sopprimendo fisicamente qualunque rinnovamento-mutamento.
Maria Cera