“L’opera terza di Zack Snyder conferma l’incapacità del regista di elaborare un cinema autonomo, in grado di emanciparsi dall’emulazione dei grandi maestri”.
L’opera terza di Zack Snyder giustifica il sospetto indotto da 300 (2007) e Watchmen (2009). Quando l’enfant prodige statunitense non si ritrova le spalle coperte da un precedente “forte”, siano le graphic novel in questione o il classico L’alba dei morti viventi (1978), finisce per farsi del male da solo, annegando nel bicchiere d’acqua rappresentato dal suo cinema, esageratamente formalista e poco o per nulla sostanzioso. Snyder, insomma, conferma con i fatti ciò che i detrattori gli hanno spesso rinfacciato/auspicato, ovvero di essere un regista tutt’ora incapace di camminare con le proprie gambe, autore si, ma probabilmente “parassita”, in grado di vivere esclusivamente sul riflesso delle nobili “imbeccate” altrui, nell’ordine George A. Romero, Frank Miller e Alan Moore.
Sucker Punch ne rappresenta la cristallina dimostrazione, collezione di tutto ciò che un film, pur d’intrattenimento, non dovrebbe assolutamente possedere, onde evitare di risultare come contraffatto e manieristico esercizio di stile. Privato di una solida base sulla quale impostare il lavoro, Zack Snyder non trova nulla di meglio da fare se non accentuare il suo gusto citazionista, infilandosi con fare autolesionista nel cinefilo vicolo cieco che vorrebbe trovare l’ambizioso e improbabile punto di contatto tra Femmine in gabbia (1974), Il 13esimo piano (1999) e Shutter Island (2010).
Orfano di personaggi capaci di superare l’empasse iniziale, riconducibile ad un immaturo “tarantinerismo” di fondo giunto ormai all’ultimo stadio (sexy guerriere dai nick name porno soft, tipo Babydoll, Sweet Pea, Rocket, Blondie e Amber), Sucker Punch calca la mano intorno ai suoi tratti postmoderni: uso e abuso del ralenti, elementare struttura video ludica, con crescente livello di difficoltà della missione annesso, e, naturalmente, l’immancabile ossessione musicale: un videoclip spalmato con insufficiente soluzione di continuità su una lunga durata (un’ora e tre quarti). Ne consegue una pellicola praticamente indifendibile, durante la quale ci si permette il lusso di massacrare pietre miliari della storia del rock quali Where is my mind? dei Pixies e Search and destroy degli Stooges, rivisitate come peggio non si potrebbe, addirittura stucchevoli nella loro pretesa di voler diventare a tutti i costi persino sostegno semiotico della presunta vicenda (rispettivamente nelle sequenze della tentata lobotomia e del lancio dall’aereo).
Larry Fong fa quel che può in ambito fotografico, ma la barca affonda ugualmente. Zack Snyder è un magistrale adattatore prestato al cinema, da lui aspettiamoci pure un buon Superman (già in pre-produzione e previsto per il 2012), ma non illudiamoci che possa mai convincere attraverso un soggetto originale, che sia, insomma, farina del suo sacco.
Nota d’obbligo per Jon Hamm, superstar della serie tv Madmen, qui alla sua seconda apparizione sul grande schermo dopo l’esordio in The Town (2010).
Luca Lombardini
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